«C’è una prima lettura della Commedia; non ce n’è un’ultima, perché il poema, una volta scoperto, continua ad accompagnarci fino alla fine. Come la lingua di Shakespeare, come l’algebra o come il nostro passato, la Divina Commedia è una città che non esploreremo mai tutta; la più conosciuta e ripetuta delle terzine può, un pomeriggio, rivelarmi chi sono o che cos’è l’universo».
La frase, di sicuro effetto, appartiene alla confessione in Il mio primo incontro con Dante, dove il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges, ammette senza vergogna di aver fatto la sua prima vera lettura della Commedia soltanto all’età di 31 anni, a causa dell’architettura gotica e dei romanzi di Sir Walter Scott, responsabili del suo odio per il Medioevo. Sul tram, nella piccola città di Almagro, dove riceve l’incarico di assistente della biblioteca, per alleviare la noia dei viaggi di andata e ritorno, Borges scopre la precisione della fantasia dantesca e l’assenza di qualsiasi ornamento linguistico. Nessun segno di abbandono o ripensamenti metrici, tutto gli appare giustificato in questa topografia dei tre regni dei morti: quello dei peccatori, dei penitenti e dei virtuosi e giusti, secondo la declinazione fatta dal figlio dell’Alighieri. Al sommo poeta, definito da Nietzsche «la iena che verseggia sui sepolcri», Borges dedicherà nel 1982 alcuni brevi saggi, perlustrando la sua opera magica, un microcosmo e una miniatura universale e grandiosa.
Il mio primo incontro con Dante è uno dei tanti micro saggi presenti ne La mappa segreta. Testi ritrovati (1933-1983) di Jorge Luis Borges, (Traduzione di Rodja Bernardoni, Adelphi, pp. 285, € 22), un volume che raccoglie testi selezionati da Textos recobrados 1931-1955 e Textos recobrados 1956-1986, (“un’immane atlantide sommersa”di duemila pagine), dando seguito così all’eccellente lavoro inaugurato nel 2009 da Adelphi con la pubblicazione di Il prisma e lo specchio. Testi ritrovati (1919-1929). In quella prima scrematura di testi dispersi dopo essere stati pubblicati su giornali e riviste, il taglio è irriverente se non addirittura iconoclasta. Borges accredita la supremazia dell’estetica multipla del prisma su quella dello specchio, una copia dell’originale, e quindi di minor pregio. Fra le tante illuminazioni presenti in quel mosaico letterario, s’impongono i tratti fondamentali di una rivoluzione poetica caratterizzata dal ritmo, la metafora e il suono. Fra quelle righe trova posto pure una severa critica alla letteratura del suo tempo, precipitata nel degrado ultimo, il “nulla immobile”.
Celebra inoltre la città di Buenos Aires, affermando che «per cogliere integralmente l’anima - immaginaria - del paesaggio, bisogna scegliere una di quelle ore orfane che vivono come spaventate dagli altri e delle quali nessuno si cura». Con questo secondo volume l’offerta delle riflessioni borgesiane è ugualmente proteiforme. Molteplici sono i risvolti tematici e le linee di forza messe in campo dallo scrittore, in prima istanza per ridare fiato al dialogo tra testo e lettore. Ed ecco delinearsi la scarsa se non nulla consistenza dell’io, «una serie incoerente e discontinua dei suoi stati di coscienza»; ecco la letteratura poliziesca, interpretata come la conciliazione tra «lo strano appetito d’avventura e lo strano appetito di legalità»; o ancora il rifiuto del concetto di testo definitivo, figlio della “superstizione e stanchezza”.
Non di poco conto è il brano con protagonista il poeta e sottotenente di artiglieria Apollinaire, per il quale la prima guerra mondiale fu un magnifico spettacolo. «Il cielo è stellato dagli obici dei Crucchi/La foresta meravigliosa in cui vivo dà un ballo». I versi citati da Borges vogliono semplicemente fare intendere che un’espressione tolta dal contesto e dal tempo in cui viene scritta o pronunciata, ne cambia il significato. Se l’espressione “la guerra è meravigliosa” per un dittatore può esprimere la speranza o la necessità bellica di lanciare bombe, per un giornalista quella stessa frase può essere il maldestro tentativo di entrare nelle sue simpatie. Se per un letterato sedentario può significare la nostalgia e l’idea di una vita più rischiosa e meno ripetitiva, per Apollinaire il senso sembra essere quello “innocente” dell’accettazione del destino e di un disegno più grande, ignorando purtroppo l’orrore del sangue.
Attraverso il suo ministero oracolare, avverso ai - simulacri didattici delle scuole letterarie, un adoratore del labirinto e nostalgico del latino come Borges, referta alcuni sogni spesso simulati dagli scrittori: esercizi e artifici retorici, finzioni quasi sempre non corrispondenti all’autenticità di quanto sale dal sottosuolo onirico, a parte i risoluti esempi di Blake e Swedenborg. Uno schema di sogno letterario lo si trova in uno dei più bei poemi della letteratura, il poco citato e autobiografico Il Preludio di Wordsworth, contenente una fantasticheria ben congegnata che supera le capacità immaginarie dello stesso sognatore. Con Gli incubi di Kafka Borges cerca di illustrare la natura onirica della creazione artistica. I romanzi, i racconti e i frammenti di Kafka non sono altro che sogni letterari come sono “gli immobili incubi di De Chirico” o le “reti d’incubi”di cui Borges fa cenno nelle opere Film e A un’ombra, a cui vanno aggiunte le costruzioni e illusioni fantastiche di Poe, di Baudelaire o in modo non meno persuasivo, di William Beckford, autore dello stupefacente romanzo gotico Vathek, gremito d’invenzioni e magnifiche fantasie. A proposito dell’incubo Borges non scarta l’ipotesi della natura ibrida del sogno.
La mente semicosciente di chi dorme, sa di trafficare con fantasmi e di essere preda di un processo allucinatorio, come accade nella letteratura più frammentaria kafkiana. Di Nietzsche analizza il concetto di eterno ritorno, partendo dai presunti precursori di questa dottrina (Plutarco, Origene, Platone, Hume). Si fa inoltre portavoce dell’idea di eternità di Eliot, secondo cui ogni scrittore subisce inevitabilmente l’influenza dei suoi predecessori, condizionando quella degli scrittori futuri. Allo stesso modo, «la sua opera modifica la ricezione di quelle passate». Cosa sarebbe infatti Marlowe senza Shakespeare? Borges non si fa sfuggire l’occasione per ragionare su autori come Walpole, don Luis de Góngora, Shakespeare, Montaigne, Whitman. In queste pagine come in molti altri suoi libri, Borges non nasconde la sua inclinazione filosofica avvertita sin da bambino, quando il padre, il suo primo amico, con l’aiuto di una scacchiera gli raccontava la corsa di Achille e la tartaruga, con l’arancia la dottrina di Berkeley e con voce appassionata la bellezza della parola, che poteva essere non solo uno strumento di comunicazione ma una magia e una musica, ovvero la poesia. E quando, ancora prima di aver scritto una sola riga, il fanciullo Jorge già sapeva che avrebbe fatto lo scrittore.