Che non sia solo un gioco è risaputo. Il calcio, forse più di ogni altro sport, muove interessi, denaro, fa intrecciare affari. Ma il calcio, come ci hanno insegnato i sociologi, è anche un produttore incessante di simboli e miti, di cui l’uomo continua ad avere bisogno anche in un’età quale quella moderna che si vorrebbe disincantata. Il calcio cementa così appartenenze, riflettendo in qualche modo passioni e sentimenti di un’intera comunità. Per la Napoli popolare, così come per quella borghese, la squadra della città è stata sempre un ricovero per le frustrazioni quotidiane, ma anche inevitabilmente un acceleratore di esse.
Fino agli anni Ottanta, cioè al periodo di Maradona e del primo scudetto, l’andamento mediocre del Napoli Calcio, in un campionato dominato dalle grandi del Nord, sembrava confermare agli occhi dei più una inferiorità non solo calcistica ma sociale, culturale e persino politica. Anche quando il Napoli acquistava fior di campioni (Jeppson, Sivori, Altafini, Zoff), il destino sembrava segnato: ci si illudeva, ma poi si navigava inesorabilmente, per bene che andasse, a metà classifica. La colpa? Ovviamente degli altri: del Nord, degli arbitri, del “sistema”. Insomma, il pallone era il comodo serbatoio in cui si riversava quel tratto antropologico maturato nel corso del tempo che è il vittimismo. Il vittimista, come è noto, vive autocommiserandosi e, soprattutto, non riesce ad addossarsi, almeno in parte, le responsabilità per le proprie (vere o presunte) disgrazie. Tutto probabilmente iniziò con il Risorgimento: la nascita dello Stato Italiano fu vissuta dalla classe dirigente meridionale solo come un’usurpazionne dei piemontesi. I conquistatori sarebbero stati pronti a saccheggiare e sfruttare le ricchezze del Sud e di quella che era la sua capitale riconosciuta e rinomata in tutto il mondo.
Ovviamente, i fatti, da un punto di vista storico, non stanno propriamente in questo modo, sono molto più complessi. E sicuramente ad avvalorare questa narrazione furono anche i tanti rappresentanti della borghesia napoletana che avevano costruito le loro fortune non con l’intrapresa, che è propria della borghesia moderna, ma con le rendite fondiarie e soprattutto con il legame stretto e clientalistico con la corte borbonica. Fu da quel momento che crebbe fra i napoletani quel sentimento che Salvemini avrebbe definito come un «sordo rancore verso quelli del Nord, una coscienza indeterminata e profonda di esser vittime della loro rapacità e prepotenza». Un sentimento castrante e proteso fra l’altro a pretendere tutto dagli altri, nella fattisispecie lo Stato, senza pensare a rimboccarsi le maniche e a far conto sulle proprie risorse.
Sono cambiate le cose nel corso degli anni? A prima vista sembrerebbe di poco o niente affatto, forse anche perché le teorie deresponsabilizzanti e la narrazione vittimistica hanno nel web una enorme cassa di risonanza. Il vittimismo è un sentimento che si autoalimenta: scoraggia l’azione e quindi contribuisce a creare quelle condizioni di fatto che lo giustificano. Ci sarebbe da fare un discorso che ci porterebbe sicurmente lontano dall’oggi e, soprattutto, dallo scudetto appena conquistato dal Napoli. Fatto sta però che oggi questo evento sembra sconfessare la narrazione vittimistica. Vincere due scudetti in tre anni, aver messo su (grazie a un imprenditore napoletano) una impresa anche economica di tutto rispetto (il Napoli è una delle poche squadre di calcio che non ha il bilancio in rosso), essere ormai entrati nel ristretto gruppo dei grand club (non solo italiani); beh, tutto questo potrebbe riversarsi sulla psicologia collettiva della città. Le mentalilità non cambiano ovviamente dall’oggi al domani, ma gli exempla contano non poco. Soprattutto se vengono da un fattore di forte aggregazione e appartenenza quale è per i napoletani la loro squadra di calcio.