La poetica degli scarti e il nostro mal di vivere

Compie cent’anni la raccolta di Eugenio Montale, il poeta ragioniere. I versi scarnificati riflesso della nostra condizione
di Carmelo Claudio Pistillodomenica 1 giugno 2025
 La poetica degli scarti e il nostro mal di vivere
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Giugno 1925 il poeta (e ragioniere) Eugenio Montale (1896-1981), dopo aver scartato quello provvisorio di Rottami, pubblica la sua opera prima con l’evocativo titolo Ossi di seppia, una pietra miliare della poesia del Novecento. L’editore è il giovanissimo e intraprendente Piero Gobetti (1901-1926), un liberale creatore di alcune riviste degli anni ’20 oltre all’omonima casa editrice, consapevole del fatto che un «volume d’eccezione e di gusto» come quello di Montale potrà avere scarsa udienza presso un vasto pubblico; ma non pensa al soccorso delle recensioni, su cui viceversa conta il poeta ligure. La sua preoccupazione è di natura commerciale e si basa sul consolidato sistema delle schede di prenotazione per «garantire una vendita minima» senza squilibrare troppo i fragili conti economici della piccola casa editrice. Sono espedienti amministrativi misteriosi o banali, ma così funziona il mercato, confessa a Montale, il quale non sa se Ossi di seppia resterà il suo unico libro. Certamente è convinto che sarà il suo libro «più intimo e irripetibile, le livre d’amour», evidente richiamo a Sainte-Beuve.

Dell’opera, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla prima edizione gobettiana, siamo in tanti a ricordare i memorabili incipit di alcune poesie: Non chiederci la parola... meriggiare pallido e assorto... Non rifugiarti nell’ombra... Spesso il male di vivere ho incontrato... Cigola la carrucola nel pozzo o certe chiuse, non meno lodate, rimaste scolpite sulle nostre labbra: ...ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. ...portami il girasole impazzito di luce. Carmelo Bene, addirittura, durante una breve vacanza passata insieme a Montale sotto lo stesso tetto a Forte dei Marmi, dimostrò di conoscere a memoria quelle poesie. Apparentemente non correva grande stima fra i due. Per Montale, infatti, l’enfant terrrible del teatro italiano era un guitto e un delinquente abituale, mentre per l’attore, Montale non era un poeta e comunque inferiore a Campana. Tuttavia, quando discutevano più o meno animatamente, sembravano andare d’accordo.

NOBEL

Di formazione non accademica, Montale, che raggiungerà la massima luce con il conferimento del premio Nobel della Letteratura nel 1975 e la nomina a senatore a vita, si rivela da subito un’eccezione rispetto agli avamposti degli emergenti registri espressivi della nuova poesia. Il suo sistema formale non cade nella trappola del nuovo. Sostenuto da una metrica spesso fedele al settenario o all’endecasillabo, evidenzia un certo conservatorismo situato lontano sia dalla prosasticità e immediatezza di Cardarelli (mai amato) che dalla disgregazione ritmica di Ungaretti e dalle avanguardie e sperimentazioni in corso. Vi sono rime perfette e imperfette, assonanze e consonanze, versi regolari e misure libere, che indussero Cardarelli a definire malignamente Montale un “chitarrista”.

Occuparsi di metrica, in quegli anni, era considerata una debolezza. Mentre per il critico Francesco Flora la calamita delle rime e degli echi rispondeva a un’armonia cosmica, per Montale le rime erano noiose come le dame di San Vincenzo, ma pur nascondendole, bussavano ancora ed erano “sempre quelle”. Negli Ossi è presente sia la lezione pascoliana, intesa come ricerca della parola esatta, sia alcuni temi dannunziani, se consideriamo il rapporto rovesciato ma ugualmente vitale con la natura: panico e positivo nel vate abruzzese e negativo nelle prime prove di Montale, seppure orientate a trovare un varco per intuire una verità nell’odore e nel giallo dei limoni, che fanno scrosciare nel petto le loro canzoni, «le trombe d’oro della solarità».

GLI OGGETTI COMUNI

La poesia I limoni, quella dei poeti laureati, per intenderci, esprime una prima visione che esclude forme auliche ma posa il suo sguardo su oggetti comuni e quotidiani. Non che Montale rifugga da un lessico talvolta ricercato. La sua mano tende però a mescolarlo con un vocabolario colloquiale e meno alto. Pure un certo espressionismo stilistico connetterà Montale a Dante più che a Petrarca (Mengaldo). Queste sono un po’ le lingue assorbite insieme a quella di Leopardi, senza trascurare l’intenso legame di Montale con i liguri Giovanni Boine e soprattutto con l’amico ed “estroso fanciullo” Camillo Sbarbaro, cui dedica, negli Ossi, più di un verso.

Non meno influente è l’anglosassone Eliot con il correlativo oggettivo, il quale, più che descrivere l’emozione, preferisce rappresentarla con l’oggetto. Forte è pure l’influenza filosofica di alcuni spiritualisti francesi tra cui Henri Bergson e in maniera più incisiva quella del dimenticato Émile Boutroux. Nella realtà, questa la tesi, ci sono delle crepe che sono indeducibili dalle leggi matematiche. Questo residuo formale determinerà un certo contingentismo montaliano, dove solo l’imprevisto e l’occasione ci possono salvare perché si sottraggono alla determinazione causale.

LA MUSICA

L’educazione musicale ricevuta da Montale per cantare come baritono, ambizione purtroppo frustrata, inciderà sulla sua versificazione. Ritmo, pause, equilibrio delle parole spesso petrose, saranno presenti nel suo pentagramma lessicale ma senza solfeggiare troppo. Con le successive Le occasioni e La bufera e altro, Montale chiuderà il ciclo fondamentale della sua opera poetica. Ciò che seguirà, da Satura in poi, assumerà una vena più diaristica e privata, e talvolta ironica, ma senza raggiungere la felicità espressiva della trilogia. Per Montale l’arte è la forma di vita di chi non vive pienamente la propria esistenza. Affermazione che non implica la rinuncia alla vita perché è la vita stessa che “s’incarica di sfuggirgli”. Da qui la ricorrente instabilità e inquietudine dell’uomo e la sua condizione “infernale”, costituita da spazi chiusi e dall’immobilità dell’assenza di una vera vita. Non resta che trovare una via di fuga dal “male di vivere” come nella poesia programmatica In limine, che sintetizza in parte il suo pensiero: «Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!». Il titolo del libro allude ai residui calcari di molluschi depositati sulla spiaggia, trasfigurati da Montale nella poetica degli scarti, sebbene in Riviere mostri fiducia nel «...riaffluir di sogni, un urger folle/ di voci verso un esito; e nel sole/ che v’investe, riviere,/ rifiorire!».