Nel giorno della disfatta, Maurizio Landini continua a coltivare la sua vocazione da illusionista. Il sindacalista ha perso ma dice che gli sconfitti sono quelli che hanno vinto. Per il segretario della Cgil, il fatto che gli italiani abbiano snobbato i suoi referendum significa che «è in crisi la democrazia», non lui, che si fa forte di «quindici milioni di consensi», più dei votanti stessi (13,8 milioni compreso il 10% che ha detto no ai quesiti sul lavoro e il 35% che ha risposto picche a quello sugli immigrati). È stata un’esperienza importante, ci rifaremo, è la sintesi del suo discorso. Viene da chiedersi se questo sia il punto più basso del lungo declino della Cgil, se ci siano margini per la risalita e come si sia arrivati fino a qui.
Se si cerca il killer di quello che fu il potente sindacato di Giuseppe Di Vittorio prima e di Agostino Novella dopo, le mani sporche di sangue sono tante; e sono quasi tutte a sinistra. Morto sul campo, stroncato dal terzo infarto dopo che i primi due non lo spaventarono né fermarono, il comunista Di Vittorio si batté per l’autonomia della sua creatura dalla politica, al punto da criticare il Pci, che si schierò con l’Urss nel 1956, ai tempi dei carri armati russi in Ungheria. La stella polare era il benessere degli ultimi: alfabetizzazione degli operai, riforma agraria, unità sindacale. Sulla sua scia, Novella portò la Cgil ad avere un ruolo fondamentale nella stesura dello Statuto dei Lavoratori, approvato nel 1970, il momento più alto della potenza del sindacato, quando ancora le rivendicazioni avevano al centro il benessere e il progresso della classe operaia. Poi, la lotta politica nelle fabbriche prevalse, la Confederazione si snaturò, perse l’anima e così la forza, consunta dallo scontro di potere con i comunisti prima, i diessini poi, i dem infine.
Chi davvero diede il colpo di grazia alla Cgil fu Matteo Renzi, il premier della disintermediazione, che teorizzò e perseguì l’inutilità dei sindacati, fino a rivendicare di aver dato lui, con gli 80 euro in busta paga, l’aumento più alto ai lavoratori. Il referendum contro il Jobs Act fallito ieri, contro una norma che ha aiutato il mercato del lavoro, è stato l’estremo, vano, tentativo di polemica nei confronti del rottamatore. Ma la battaglia l’aveva già persa il predecessore di Landini, Susanna Camusso. Promosse un referendum contro la legge che la Corte Costituzionale non gli ammise. Poi ci pensò Paolo Gentiloni, il successore di Renzi dal medesimo designato a maramaldeggiare, modificando la normativa sui voucher e facendo decadere l’unico quesito sopravvissuto. Alla consultazione, Camusso aveva legato una proposta di riforma del lavoro elaborata con autorevoli giuslavoristi che difendeva il ruolo del sindacato e finì nel cestino.
QUANTI SCONTRI
Una quindicina d’anni prima, era stato un altro premier di sinistra, il diessino Massimo D’Alema, a infierire sulla Cgil. A differenza di Renzi, che puntava alla distruzione del sindacato, sostenendo che fosse fermo al tempo delle cabine telefoniche a gettoni, il leader Massimo voleva solo riportarlo sotto il tacco della politica. Sono i tempi dello scontro con Sergio Cofferati, che i Ds accusavano di preferire agitare il libretto rosso in piazza piuttosto che siglare accordi in fabbrica. Poco dopo, il segretario della Cgil riuscì a portare un milione di persone in piazza contro Silvio Berlusconi. Si illuse così di poter scalare i Ds, che invece lo usarono per poi paracadutarlo a Bologna, come sindaco, per liberarsene dopo che il Cinese, questo il soprannome, aveva provato a scalare il partito con il suo candidato di bandiera, Luigi Berlinguer, sconfitto da Piero Fassino.
Il dilemma amletico è se il sindacato rosso sia stato ucciso dalla politica o dalla sua voglia di farla e dalla conseguente reazione delle forze di sinistra per impedirglielo. Certo la Cgil iniziò a morire nel 1992, contestualmente alla fine della Prima Repubblica, era in cui ciascun partito aveva un sindacato di riferimento. Quando Achille Occhetto sciolse il Pci, il sindacato rosso perse il suo punto di riferimento e l’allora capo, Antono Pizzinato, non ci capì più nulla: provò a tenere alti falce e martello ma per questo fu costretto a lasciare.
La prima grande debacle però è datata 1980, quando a Torino la marcia dei quarantamila organizzata dalla Fiat piegò le rivendicazioni sindacali e la lotta dura portata avanti dall’allora capo della segreteria piemontese, Fausto Bertinotti, che spinse il segretario nazionale, Luciano Lama, su posizioni estremiste e ne uscì sconfitto. Dalla figuraccia non si salvò neppure Enrico Berlinguer, andato davanti ai cancelli di Mirafiori a sostenere una battaglia persa che il Pci non ebbe neppure la forza di combattere. Da quella disfatta nacque il travaglio del sindacato e il suo sforzo per essere più a sinistra del partito. Era il segno che la spinta ad avere un peso in politica aveva ormai prevalso definitivamente sull’attenzione alle esigenze dei lavoratori, che presentarono ancora una volta il conto, sempre alla Fiat.
Nel 2010, l’allora amministratore delegato, Sergio Marchionne, avviò un profondo processo di ristrutturazione aziendale che la Fiom, allora guidata da Maurizio Landini, rifiutò di sottoscrivere. Ne seguirono due referendum aziendali, persi entrambi dalla Cgil, che forse proprio da allora decise di occuparsi più dei comizi che dei contratti. La sconfitta non ha impedito a Landini di diventare poi capo di tutto il baraccone e di continuare a preferire la politica all’azienda. Ieri ha dimostrato che la sinistra unita da lui non convince neppure un quarto degli elettori, ma la sua diagnosi è che il problema è loro. In realtà, il problema continua a essere soprattutto dei lavoratori. Sei milioni e mezzo aspettano il contratto. Il governo è pronto a firmare aumenti per gli operatori sanitari, ma la Cgil ha fatto saltare all’ultimo l’accordo. Ufficialmente perché non sono sufficienti, anche se si parla di 400 euro al mese; in realtà perché non vuole che la situazione del settore si risolva. La sanità è argomento di campagna elettorale per la sinistra e lui vuole avere voce in capitolo. Pare che il ministro della Pubblica Amministrazione, Paolo Zangrillo, tenga ai 3,2 milioni di dipendenti pubblici che attendono il rinnovo, molto di più di Landini, che li usa come ostaggi politici.