Un passo indietro per farne due avanti. La decisione del Teatro alla Scala di Milano di reintrodurre formalmente il dress code sembra un ritorno al passato, ma in realtà è una decisione profondamente contemporanea. Non si tratta infatti di un ritorno nostalgico al frac o alla cravatta obbligatoria, né di un rigurgito classista in chiave rétro. Il Piermarini, tra i teatri più celebri al mondo, sente il bisogno di ribadire il concetto «qui si entra con rispetto». E il rispetto passa anche dall’abito.
Dallo scorso 27 giugno, all’ingresso e in biglietteria, campeggiano cartelli inequivocabili: niente canottiere, pantaloncini corti o infradito. Chi non si adegua, non entra. E non ha diritto a rimborso. Il principio è semplice e – a detta della direzione – non è punitivo ma educativo. Le maschere, che avranno il compito di far rispettare la nuova linea, useranno “buon senso”. «Una blusa senza maniche non sarà trattata come una canottiera da spiaggia, né un paio di zori giapponesi sarà motivo di esclusione», puntualizza una maschera del Piermarini. Ma resta il fatto: si volta pagina. «La decisione della direzione è di buon senso», commenta un dipendente del teatro che negli anni ne ha viste di tutti i colori. «Il problema delle infradito è che si tolgono molto facilmente dai piedi e questo può dar molto fastidio ai vicini», puntualizza la maschera rivelando che «le maggiori lamentele per l’abbigliamento non molto consono di alcuni spettatori sono arrivate per lo più dagli abbonati che, sia d’estate che d’inverno, si presentano in giacca e cravatta».
Milano, cafoni al bando: la Scala reintroduce il codice d'abbigliamento
Libiamo, sì ma con grazia e soprattutto con eleganza. In altre parole, al Teatro alla Scala di Milano non saranno...Il dress code alla Scala, in realtà, non era mai stato formalmente abolito. Fino al 2015 era persino stampato sui biglietti. Poi è arrivato l’Expo, i flussi turistici globali, e Alexander Pereira – all’epoca sovrintendente – decise di ammorbidire i toni. Aboliti i vincoli più rigidi, si lasciava spazio a un “invito al decoro”. Il suo successore, Dominique Meyer, fece un passo ulteriore verso l’inclusività anche perché in gioventù, ha raccontato più volte, era stato redarguito per il look “da operaio” dai suoi vicini di palco una delle prime volte che andava all’Opéra a Parigi (di cui poi è diventato direttore generale). «Mi importa che i giovani vengano, non come sono vestiti», fu il suo slogan.
Una frase che suonò come manifesto di apertura, ma che – a conti fatti – ha alimentato una zona grigia. A infrangere l’armonia non sono stati i ragazzi – spesso più eleganti e composti degli adulti – ma certi turisti, in abiti da escursione urbana, che hanno trasformato la platea in una cartolina estiva. Bermuda, ciabatte da mare, zaino in spalla: sembravano essere stati catapultati nel tempio della Lirica direttamente dalla spiaggia. Da qui la svolta di Fortunato Ortombina, nuovo sovrintendente, già alla guida della Fenice di Venezia, dove un dress code è già prassi. Il suo ragionamento è chiaro: non si chiede l’eleganza da gala, ma una sobrietà che riconosca l’eccezionalità dell’esperienza teatrale. Non è solo una questione di immagine: «In galleria - spiega la maschera del Piermarini, - i posti sono molto vicini. È sgradevole stare ore a contatto con la pelle nuda e sudata di uno sconosciuto».
Il punto è che, in un mondo che ha smarrito le forme, la Scala ha deciso di ridisegnare i confini. E non solo sul fronte dell’abbigliamento. Il nuovo regolamento vieta anche cibo e bevande portati dall’esterno. E rinnova gli appelli – sempre più ignorati – contro l’uso degli smartphone durante gli spettacoli. La direzione è dovuta intervenire persino con un cartello che invita a non appoggiare i telefoni alle balaustre, dopo che un dispositivo è caduto da un palco, colpendo uno spettatore. Un gesto, un incidente, che dice molto del presente: la soglia tra il pubblico e il palco si assottiglia, ma non sempre in nome della partecipazione. Il confronto con altri teatri europei è eloquente.
L’Opéra di Parigi raccomanda “abbigliamento consono”, la Staatsoper di Berlino “apprezza l’eleganza”, la Royal Opera House di Londra invita a “vestirsi come ci si sente a proprio agio”. Nessun obbligo, insomma. Solo Venezia – con la Fenice – condivide con Milano un approccio più normativo. Ma la questione non è – e non può essere – solo estetica. A settembre, la rivista ufficiale della Scala dedicherà un articolo firmato da Alberto Mattioli proprio ai comportamenti a teatro: si parlerà di abiti, certo, ma anche di atteggiamenti, distrazioni, silenzi interrotti, rituali che si perdono. E qui sta il nodo più interessante, forse. Il teatro, lo sappiamo, non è un museo. Ma nemmeno un centro commerciale dell’intrattenimento. È un rito laico, una liturgia profana che reclama attenzione, presenza, rispetto. Ogni gesto – anche quello di scegliere cosa indossare – è un atto culturale. Resta però il rischio che l’invito al decoro, per quanto formulato con equilibrio, si trasformi in una barriera. Perché ciò che per alcuni è “buon senso”, per altri può suonare come esclusione. E se la cultura vuole davvero includere, deve interrogarsi anche su questo. Ritrovare la misura, distinguere tra spontaneità e sciatteria, educare al gesto teatrale senza erigere steccati: è questa la vera sfida. In gioco non c’è solo l’estetica, ma la qualità dell’incontro tra l’arte e il suo pubblico. Forse basterebbe ricordare, con discrezione, che a teatro non si entra “come capita”, ma “come si sceglie”. E che ogni scelta – compresa quella di un abito – può essere un atto di rispetto, per sé, per gli altri, per la scena.

