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Pompei, "i reperti rubati da zio? 50 anni di jella"

di Luca Puccini giovedì 17 luglio 2025

3' di lettura

«Questi pezzi sono stati presi illegalmente dal sito di Pompei dallo zio Bob». Un fogliettino, tipo quello dei block-notes che regalavano le banche anni fa. La calligrafia chiara, in stampatello, leggibile. È in inglese. E poi una scatoletta di legno con cinque, forse sei, reperti trafugati vai a sapere quando, vai a sapere come, vai a sapere perché. Uno è giallo brillante, un altro sembra un mosaico monocolore, è fatto tutto a quadratini, alcuni sono “semplicemente” frammenti di intonaco di 2000 anni fa. Sono avvolti da un cellophane e arrivano negli uffici del Parco campano in un sacchetto nero. Il timbro e il codice della spedizione dice che sono partiti da Bolton, poco sopra Manchester, nel Regno Unito. C’è anche un secondo biglietto: «Ve li restituisco per dovere e per piacere». Firmato: Paul.

Non è la prima consegna dei “pentiti” di Pompei e non sarà l’ultima. È, tuttavia, probabilmente, l’ennesimo ritorno legato alla “maledizione del sito” che anatema (in realtà) non lo è per niente ma stratagemma (pure efficiente) per evitare di disperdere un patrimonio archeologico inestimabile lo è per davvero. Un po’il castigo di Tutankhamon, un po’la fisima del diamante Hope, un po’mito e un po’autoconvincimento: un po’(molto) intuizione brillante di chi l’ha creata.

Primo: se c’è qualcuno, qui, da ringraziare non è uno stregone con la barba blu ma il corpo dei carabinieri del comando Tutela del patrimonio culturale che fermo non riesce a starci mai e che, per esempio, nelle scorse ore ha fatto sì che anche un mosaico romano raffigurante una coppia di amanti fosse riportato al Parco (questa volta da Stoccarda, in Germania). Secondo: negli anni passati di pacchi (preziosissimi) recapitati a Pompei ne sono arrivati parecchi. Terzo: chiamala superstizione, credenza, scaramanzia, perché no? anche solo sfiga, ma le storie si sono sempre un po’ assomigliate.

Nicole, nel 2021, ha rispedito a Pompei dal Canada alcuni minuscoli reperti (il coccio di un’anfora e un pezzetto di ceramica) trafugati una ventina di anni prima mentre era in vacanza: l’ultima vacanza felice della sua vita perché subito dopo «ho avuto il cancro al seno due volte e l’ultima è finita in una doppia mastectomia, io la mia famiglia abbiamo anche dei problemi finanziari». L’anno scorso un anonimo visitatore ha lasciato quattro pietre pomici e poche righe di spiegazione: «Non lo sapevo. Nel giro di un anno mi sono accorto del cancro. Sono giovane e in salute e i medici dicono che è solo “sfortuna”. Per favore, accettate le mie scuse». Ancora più indietro nel tempo, nel 2016, un visitatore (in un impeccabile italiano) ha restituito «questa pietruzza ricavata da un mosaico».

Storie “dannate”, storie persino commoventi, storie toccanti: ma storie che hanno tutte lo stesso comune denominatore. La sensazione di una sciagura annunciata, la scomunica di una sventura auto-inflitta. Nella migliore delle ipotesi non-ci-credo-però, nella peggiore dietrofront, scuse e richieste di perdono.
Di vero, tuttavia, non c’è molto. C’è, semmai, la trovata geniale di Antonio Irlando.

Irlando è un architetto, è un giornalista, è un corrispondente dell’Ansa da Torre Annunziata e, soprattutto, è uno che ha a cuore Pompei. All’inizio degli anni Novanta, un giorno, mentre è ospite del soprintendente Baldassarre Conticello, nota tra la sua posta un pacco che contiene due tessere bianche di un mosaico e una letterina sulla quale c’è scritto: «Vi restituisco queste cose perché da quando le ho prese mi ha colpito la malasuerte». A scriverle, probabilmente, è un cittadino spagnolo o comunque di lingua spagnola, ma Irlando viene colpito proprio da quel termine. E allora dice al suo interlocutore: «La dobbiamo divulgare perché la diceria che i reperti sottratti agli scavi portano sfortuna varrà più di qualsiasi azione di tutela e controllo che sarete in grado di fare». Conticello, che mica era uno sprovveduto, ci pensa un attimo su e alla fine acconsente. È lì che nasce la diceria della “malasorte di Pompei” oggi traslata in “maledizione di Pompei”. Di vero non c’è niente, di utile c’è tutto il resto (aperta parentesi: trafugate pietre, pure piccole, pure minuscole, è a tutti gli effetti un reato e quando entra in gioco il codice penale la sfortuna non è mai una scusante). Turisti, visitatori, appassionati o ragazzini annoiati in gita scolastica: la tentazione di mettersi in tasca un pezzo di storia è altissima. Ne vale la pena? Maledizione o non maledizione, no. Mai.

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