È anche una questione terminologica. Quando si parla dell’8 Settembre, l’8 settembre 1943, la prima parola che viene in mente è “armistizio”. Ma per l’Italia quello siglato sotto un tendone di Cassibile, frazione di Siracusa, con gli Alleati, non fu tale. Fu una capitolazione, una resa incondizionata vista la «soverchiante potenza avversaria», come da proclama di Pietro Badoglio, che dal 25 luglio aveva preso il posto di Benito Mussolini alla guida del governo italiano. “Armistizio”, pur nella situazione di una Nazione allo sbando, ha un altro suono: presuppone una trattativa, un accordo, tra due belligeranti. Così non fu all’ombra di un uliveto siciliano, dove il generale italiano Giuseppe Castellano fu costretto ad accettare le durissime condizioni anglo-americane.
È questo il primo elemento che colpisce nel volume La resa, la fuga, la patria. 9 settembre 1943. Una storia italiana, curato dallo storico Marco Patricelli per Solferino (pag. 316, euro 19,90). Quella formula lessicale neutra, quasi tecnica, è solo una delle tante ambiguità che fanno da sfondo a un avvenimento cruciale per l’Italia e che il curatore e gli altri specialisti e storici che hanno contribuito al volume – Ernesto Galli della Loggia, Lutz Klinkhammer, Anna Longo, Aldo A. Mola, Roberto Olla, Francesco Perfetti e Luciano Zani – hanno il merito di portare alla luce.
Non è casuale l’indicazione, nel titolo, della data del 9 anziché dell’8. Infatti quando i Reali, lo stesso Badoglio, i vertici militari e parte dei ministri lasciano in auto il ministero della Guerra destinazione Pescara sono le prime ore – le 5,10 del mattino – del 9 Settembre. Ed è con quell’atto – piaccia o meno – che nasce l’Italia postfascista. Patricelli, a proposito di quella colonna di auto in marcia sulla via Tiburtina, l’unica senza la presenza dei tedeschi, usa l’espressione «fuga». Ma anche lui riconosce, nella prefazione, che quell’atto una sua «logica politica e una giustificazione storica» l’aveva. Sono le modalità ad essere state disastrose: l’allontanamento notturno, l’assenza di disposizioni per i reparti militari, la ressa sul molo di Ortona per salire a bordo delle navi per raggiungere Brindisi. Eppure è da quel debolissimo “regno del Sud” che prende le mosse, come ricorda Olla, la «formazione del potere nella nuova Italia». Da quel lembo della Puglia senza truppe germaniche né Alleate nasce l’Italia per come la conosciamo oggi. Anche se la memorialistica e la storiografia l’hanno confinato in un angolo, è paradossalmente il tanto esecrato Vittorio Emanuele III ad aver favorito, salvando la continuità dello Stato unitario e come tale riconosciuto dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, la nascita dell’Italia democratica.
Questo senza nascondere le modalità «inferiori a ogni più sciatta e sgomenta negligenza»- con le quali avvenne il trapasso. Basti pensare alla figura del generale Castellano, spedito a trattare con gli Alleati senza credenziali. Castellano è quell’uomo in borghese, l’unico nel tendone dove abbondano le mimetiche angloamericane, che appare nelle rare fotografie che immortalano la firma della resa italiana. Privo di credenziali, senza parlare la lingua inglese, il fedelissimo del capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio si mette in marcia per prendere i primi contatti con le forze angloamericane nella penisola iberica: parte da Roma il 12 agosto e arriva a Madrid il 15.
Basterebbe questo a spiegare l’improvvisazione, la scarsa organizzazione della missione, che se fosse fallita non avrebbe avuto altri responsabili che Castellano vista la mancanza di un incarico ufficiale (circostanza cui si pose riparo in fretta e furia solo nei momenti conclusivi delle “trattative”). Il generale è l’uomo chiave: è lui - sulla base di sensazioni, non di comunicazioni ufficiali - a indurre il governo e la Corona a credere che gli Alleati annunceranno la capitolazione italiana non prima del 12 settembre. Così quando l’8 settembre il comandante delle forze militari in Europa, “Ike” Eisenhower, romperà gli indugi da Radio Algeri annunciando la fine delle ostilità con l’Italia, il governo Badoglio precipiterà nel caos.
In questa lunga narrazione sul «crollo di uno Stato» (la definizione è di Olla) non può mancare il giallo: la “liberazione” di Mussolini a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, proprio il 12 Settembre. A oltre ottant’anni dai fatti, sottolinea Mola, l’interrogativo sulla blanda custodia – eufemismo – del Duce da parte del governo Badoglio è ancora senza risposta. Il sospetto che il Maresciallo abbia barattato con i tedeschi la liberazione del dittatore in cambio dell’incolumità sua e della famiglia Savoia dopo la capitolazione, resta.