La vicenda dei “bambini del bosco” sembra una novella. Forse eccessivamente drammatizzata: si spera che finisca bene, risolvendo le criticità rilevate dalle autorità che obiettivamente ci sono. Poi c’è il solito dibattito.
Per esempio l’Associazione nazionale magistrati ha ritenuto di intervenire non solo per chiedere (com’è legittimo) il «rispetto del ruolo della giurisdizione»; non solo per polemizzare con «le strumentalizzazioni di certa politica»; ma anche per entrare nel merito dell’ordinanza («si fonda su valutazioni tecniche e su elementi oggettivi»).
C’è chi, come Ermes Antonucci, ha osservato: «L’Anm dice “no a strumentalizzazioni politiche” sulla decisione del Tribunale che ha allontanato i bambini dalla famiglia nel bosco: “Protetti i diritti dei minori”. Al di là di come la si pensi, mi chiedo con quale serenità la Corte d’appello potrà esprimersi sul ricorso della famiglia dopo un intervento pubblico così netto dell’Associazione nazionale magistrati. La stessa che sostiene di tutelare l’indipendenza dei giudici».
Peraltro gli aspetti critici enucleati dall’Anm (“sicurezza, condizioni sanitarie, accesso alla socialità, obbligo scolastico”), alla luce delle informazioni uscite sui giornali, non sembrerebbero così drammatici, soprattutto se paragonati a tante situazioni di degrado. Si è saputo pure che ci sono “lavori in corso” per risolvere alcuni problemi logistici e igienici.
Inoltre l’obbligo scolastico in Italia non è obbligo di frequentare una scuola, ma l’obbligo formativo che però può essere espletato anche con la “scuola parentale” e pare sia quello che ha scelto la “famiglia del bosco” (che non è affatto unica lì in quella zona). Tanto che nel provvedimento del Tribunale dei minori si legge: “Va evidenziato che l’ordinanza cautelare non è fondata sul pericolo di lesione del diritto dei minori all’istruzione, ma sul pericolo di lesione del diritto alla vita di relazione”. In pratica la “socializzazione” con i coetanei, che sarebbe mancante e – scrivono- potrebbe portare “gravi conseguenze psichiche ed educative”.
Secondo alcune cronache risulterebbe che i “bambini del bosco” frequentano e giocano con altri bambini del paese. Ma basta questo? È un altro degli aspetti che sarà verificato e valutato di nuovo da chi di dovere. Una grande firma di Repubblica come Francesco Merlo (quindi al di sopra di ogni sospetto di “strumentalizzazione politica”) sabato scorso ha fatto un’osservazione critica (che anzitutto riguarda le leggi): «Esiste in Italia una cultura giudiziaria intrusiva nella tutela dei minori che condannerebbe persino Giuseppe e Maria per quella capanna riscaldata da un bue e un asinello». Ieri ha aggiunto: «Sottoposti alle loro analisi, tutti noi genitori risulteremmo censurabili».
Tuttavia questo è un caso molto particolare e problematico. Merlo ha fatto pure un’altra considerazione: «Dobbiamo la verità sulla “famiglia nel bosco” ai cronisti» grazie ai quali «abbiamo capito, e anche visto, la felicità della vita, povera, ma ricca di quella famiglia». Nella sua scelta «non c’è solo la parabola sul legittimo e libero rifiuto degli eccessi della modernità... ci sono gli hippies, la wilderness americana, l’ecologia, la casetta nel bosco di Thoreau... la pedagogia di Steiner e di Rousseau».
Un quadretto troppo romantico? Nelle cose umane non tutto e sempre è idilliaco, ma Merlo coglie un aspetto vero e profondo: questo non è un caso di degrado, ma una scelta culturale ponderata. Forse realizzata in modo eccessivo e magari l’intervento delle autorità servirà a questa famiglia a garantire condizioni di vita migliori ai figli. Evitiamo dunque tifoserie e puntiamo sul positivo.
Il Tribunale dei minori ha il diritto e il dovere di accendere un faro sulla “vita di relazione” di quei bambini e i loro genitori potranno rifletterci e arricchirne le giornate, anche se nella loro allegria non sembra di cogliere oggi quel rischio – segnalato nell’ordinanza – di “isolamento sociale” che porta a “una bassa autostima e, in casi estremi, a sintomi di ansia o depressione”. Può essere però un rischio con la crescita. Ma allora andiamo oltre il caso della “famiglia del bosco”.
Questi rischi e questi sintomi oggi allarmano proprio nella grande popolazione scolastica e giovanile che è immersa nella socializzazione (e nelle nuove tecnologie). Ovviamente non è un problema che riguarda la magistratura. È una grande questione culturale e politica che riguarda tutti noi, il sistema scolastico ed educativo, i media, i partiti, le istituzioni e tutte le agenzie educative (a cominciare dalla Chiesa che, in Italia, ormai, con la leadership di Zuppi, sembra aver dimenticato la sua missione propria per abbracciare la grigia Agenda del Pd).
I dati sono preoccupanti. Ansia, depressione, panico sono sintomi molto diffusi fra gli adolescenti. Dopo il Covid Il 49,4% dei giovani italiani tra i 18 e i 25 anni ha affermato di avere sofferto di ansia e depressione per l’emergenza sanitaria. Aumentano ogni anno le richieste di aiuto. Secondo l’Oms un bambino o adolescente su sette in Europa vive un disturbo di salute mentale, un dato in crescita negli ultimi 15 anni (fra le ragazze una su quattro fra i 15 e i 19 anni). E il suicidio è ormai la prima causa di morte per i giovani fra 15 e 29 anni. Nel 2022 l’Eurobarometro rilevava che “il 42 per cento dei giovani europei dichiara di ritenere la propria vita priva di significato”.
Ricordiamo che questa è la generazione della socializzazione: è la pedagogia che ha permeato e permea il sistema scolastico ed educativo da decenni (a cui si aggiunge la socializzazione planetaria dei social). Bisogna riconoscere un fallimento, come conferma la cronaca, e occorre una vera riflessione critica. C’è un grande problema educativo.
La socializzazione è necessaria, ma i giovani (come tutti noi) hanno bisogno anche di interiorità, di silenzio e contemplazione. Hanno bisogno di bellezza e di capire il valore della fatica e del dolore. Hanno bisogno di spiritualità. Di cercare e di scoprire il senso della vita.