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Famiglia nel bosco, i casi di Arezzo e Trieste scuotono l'Italia

di Claudia Osmetti venerdì 5 dicembre 2025

4' di lettura

Ci hanno sperato fino all’ultimo in quel “ricongiungimento urgente” che, ancora, non è arrivato. Palmoli, Chieti. Anzi L’Aquila: perché è qui, nel capoluogo d’Abruzzo, che l’udienza fiume per la “famiglia del bosco” termina senza terminare realmente. Mamma Catherine e babbo Nathan aspettano. Un’ora, due, in aula ci sono i loro avvocati: sono quasi le sei di sera quando il tribunale dei minori decide di prendere tempo. Si riserva la decisione, non si esprime, vuole valutare in maniera più approfondita tutti gli aspetti di un caso delicato che rimbalza sui social, riempie i giornali e viene i servizi dei tigì.

Pazienza, per modo di dire, se, nel frattempo, tempistiche precise manco ci sono, i tre bimbi della coppia restano nella casa famiglia che li ha accolti da qualche settimana, lontano da quel casolare in mezzo alle selve, dalla loro vita agreste (non facile, nemmeno normale, sicuramente però libera), lontano dai genitori che, per loro, si stanno battendo giorno e notte. Sembrava fatta, sembrava arrivato il lieto fine con la proposta di un ristoratore del Teatino di concedere a questa “famiglia rurale”, ai Birmingham - Trevallion, una sistemazione temporanea in mezzo al verde per i mesi che serviranno a coprire i lavori della loro (nuova) abitazione: in realtà si potrebbe andare più a rilento del previsto. Giuseppe Masciulli, che è il sindaco di Palmoli, ha appena fatto sapere, in settimana, che, per il momento, «non è stato presentato alcun progetto di ampliamento» di quello stabile negli uffici del suo municipio (è un passaggio, le carte ci saranno, saranno depositate proprio in tribunale di lì a qualche ora, ma il nodo formale rimane: l’iter dell’edilizia ha il suo corso).

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Corre voce per ore che i due anglo-australiani abbiano sollevato alcune obiezione sull’utilizzo di materiali come la plastica che non giudicano consoni all’ambiente naturale che hanno scelto come stile di vita; e pare che, per quanto riguarda il bagno, uno dei tasselli fondamentali indicati dalla magistratura la quale, su questo, ha decretato il provvisorio allontanamento dei loro figli, siano intenzionati da averne uno con un impianto di fitodepurazione (cioè che sfrutta un sistema di acque reflue usando piante acquatiche e processi biologici in un bacino impermeabilizzato dalla ghiaia: al di là delle spiegazioni tecniche, si tratta di una soluzione non veloce e invece costosa).

In tribunale vengono analizzate le perizie dei consulenti e degli assistenti sociali, viene ricordata (prima di ieri non era ancora stato fatto) la preparazione della ragazzina più grande che ha ottenuto la licenza di terza media (fino a un mese fa i “bambini del bosco” studiavano a casa loro con la loro madre), si ripercorrono i punti «che avevamo richiamato nel corso del reclamo e che adesso abbiamo reiterato», spiega luno degli avvocati della famiglia, Danila Solinas. Gli elementi nuovi sono lì da vedere, il piano per le modifiche fisiche al casolare, quello per ammodernarlo quanto basta, renderlo un alloggio adeguato e funzionale (col riscaldamento, soprattutto coi servizi igienici), l’aspetto critico della socialità dei ragazzini che non può essere ignorato: eppure è un nulla di fatto, un rimando, un’attesa che si prolunga. «È stato un proficuo confronto», taglia corto Solinas uscendo dal tribunale per i minorenni, «c’è stato un dialogo costruttivo tra le parti».
Il resto rimane sospeso almeno per i prossimi giorni e domani inizia il fine settimana, difficilmente si prendono provvedimenti nei week-end.

Se va per il verso giusto, in questa storia che di versi giusti ne ha visti pochini, da lunedì dovrebbe smuoversi qualcosa (mentre martedì 16 dicembre è attesa la pronuncia della corte d’appello sul ricorso presentato dai Birmingham - Trevallion). Vite in bilico, incerte, appese alla speranza di ritrovarsi (di nuovo) sotto lo stesso tetto. Un po’ come quelle di un’altra famiglia, in un’altra regione (la Toscana), in un altro bosco (l’Appennino) e con un destino scandalosamente simile.

Caprese Michelangelo, in provincia di Arezzo: è il copione della vicenda di Palmoli, solo che dura da più tempo (da metà ottobre), ha ricevuto molto meno interesse mediatico e riguarda non tre ma due bimbi (di otto e quattro anni). I loro genitori (il padre Harald faceva il perito elettronico a Bolzano, la madre Nadia viene dalla Belorussia) fanno parte di un gruppo che si chiama “Noi è, Io sono”. Non si riconoscono nello Stato, rifiutano i suoi obblighi e, per questo, non hanno mai mandato alla scuola pubblica i propri figli.

I servizi sociali di Caprese hanno seguito il loro nucleo famigliare da mesi: hanno contattato i genitori, hanno parlato con loro, hanno provato a convincerli a iscrivere i ragazzini all’asilo e alle elementari. Non c’è stato verso finché, un giorno, il tribunale dei minori di Firenze, coi carabinieri e i servizi sociali al seguito, ha fatto quello che i colleghi magistrati han fatto a Palmoli, ha allontanato i due bambini. A Trieste, invece, qui non c’entra nessuna casa incantata nel bosco e nessuna filosofia esistenziale alternativa, ma è l’andazzo dei tempi e non sono tempi di cui rallegrasi troppo, una donna si è vista togliere la propria figlia di otto anni sulla base dalla relazione dei servizi sociali (tra l’altro, gli stessi che avevano concesso alla madre del piccolo Giovanni Trame di passare del tempo da sola con lui, non immaginando che, in uno di quegli incontri, il bimbo sarebbe stato sgozzato).

Un giorno di febbraio la polizia municipale si è presentata a scuola e l’ha portata via, l’ha messa in una struttura che accoglie minori stranieri non accompagnati (i quali, tra parentesi, sono pure più grandi di lei). A monte c’è una vicenda assai complessa con la donna triestina a cui è stata sospesa la capacità genitoriale, un’accusa (poi archiviata) di violenza sessuale a carico del padre e la richiesta di vedere almeno «garantiti gli incontri protetti con la madre», spigano i suoi legali: «La permanenza in comunità non può diventare una soluzione stabile. Il collocamento in struttura deve essere un’extrema ratio da applicare solo in caso di reale pericolo».

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Redazione