La Chiesa di Milano è il fulcro di una delle diocesi più ricche d’Europa, una ricchezza non solo spirituale, anche materiale. Sono i talenti della terra ambrosiana che nutrono le opere. L’arcivescovo Mario Delpini nel suo “Discorso alla città” ieri ha tratteggiato una metropoli avviluppata dal mostro del denaro, dalla brama del guadagno, dalla cupidigia e dall’egoismo dei ricchi. Delpini ha svolto il suo intervento in tre atti. Il primo dedicato alle «minacce di crollo»; il secondo intitolato «io mi faccio avanti», quindi l’elogio degli uomini e delle donne di buona volontà, coloro che fanno; il terzo è il capitolo «la casa non cade».
In tre atti Delpini fa il suo lavoro che si apre con l’inferno e si conclude in un paradiso in terra guidato dallo Spirito Santo. Quella che resta in mente però è la prima parte del suo discorso, di una durezza che finisce per esondare nel pre-giudizio, dedicata al funzionamento del capitalismo: quando Delpini dice che «si usano le case per fare soldi, invece che per ospitare persone» dimentica che l’utile è il motore del mercato, senza ci sono solo due possibilità: la rovina del sistema o il comunismo che, come ci ha insegnato la storia, è sempre una rovina. Quando l’arcivescovo parla di Milano come capitale della finanza raggiunge le cime tempestose della sinistra radicale, al punto da affermare che qui «si riconoscono i peccati capitali della finanza, intesa come l’astuzia di far soldi con i soldi».
Siamo sostanzialmente a una condanna del prestito e dell’interesse, e poco ci manca che il denaro torni a essere “sterco del diavolo”. Colpisce questa visione, sembra un balzo indietro alla critica del materialismo, quando si parla di «mondo ingiusto», «mondo del lusso incontrollato», di «denaro sporco», si dimentica che il denaro certamente non compra la salvezza, ma rende possibili opere di bene che prima di essere un aiuto e una speranza sono i beni materiali messi a frutto dal capitalismo. Guadagnare fa bene anche all’anima.