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Chat e mail di lavoro, occhio a cosa scrivi: come ti licenziano

di Luca Puccini sabato 27 dicembre 2025

3' di lettura

Di per sé sarebbe una normalissima, banalissima, ordinarissima causa di lavoro: epperò si fonda sulla lettura, da parte dell’azienda, delle chat interne dei suoi dipendenti e, allora, nell’era del digitale, del sempre connesso e delle piattaforme da remoto, cambia tutto. In quattro parole: sì, si può fare (l’ha appena deciso la corte di Cassazione), quei messaggi inviati tra un riunione-al-terzo-piano o questa-pratica-la-segui-tu? possono essere visti, spulciati, catalogati e impiegati per eventuali provvedimenti disciplinari. In un discorso un po’ più articolato: il caso è quello di un manager delle risorse umane di Amazon che, a Torino, deve decidere se offrire un contratto a un corriere. All’inizio sembra vada tutto per il meglio, il manager propende per l’assunzione, è quasi fatta. Poi, improvvisamente, cambia idea. Colpa di Chime, la chat aziendale di cui si serve: colpa, più nello specifico, di qualche commento scambiato con un collega di un altro ufficio che non è della stessa idea. Finisce che il corriere non viene messo tra il personale a disposizione, ma finisce anche che è proprio lui a sollevare dei dubbi sostenendo di aver subìto un trattamento ingiusto. Dopotutto la scelta di scartarlo non è stata né trasparente né lineare. È qui che la questione diventa (giuridicamente e non solo) interessante.

Il manager viene licenziato nel luglio del 2020 perché alcuni rappresentanti di Amazon fanno quello che farebbe chiunque col sospetto che siano in circolazione messaggi “poco chiari” scritti a riguardo: acquisisce la chat interna, la passa al setaccio, trova i contenuti “incriminati”, capisce che un comportamento non corretto c’è stato per davvero e propende per la conseguenza lavorativamente più drastica perché d’accordo ogni cosa ma ci sono due articoli del codice civile (il numero 2.104 sul dovere di diligenza e il numero 2.105 su quello di fedeltà) che mica son sciocchezze. Di fronte al manager che, a sua volta, non molla (fa causa ad Amazon per licenziamento da ingiusta causa, ma sia il tribunale che l’appello rigettano il suo ricordo), è la Cassazione che risponde alla domanda di fondo. Quella che regge l’intero impianto, quella che si scardina addirittura dal faldone di specie, quella che un “precedente” può pure esserlo: è legittimo o no che un’azienda sbirci nelle chat interne dei suoi dipendenti anche in vista di un’azione disciplinare? Risposta: sì, eccome, e per un ragionamento abbastanza semplice: una chat aziendale è uno strumento di lavoro e, come tale, lo è e resta anche fuori orario da scrivania e anche se viene momentaneamente sfruttata per conversazioni “private”. Quindi qualsiasi informazione contenga può essere impiegata «a tutti i fini» (dice la Cassazione), compresi quelli disciplinari e quelli di “controllo difensivo” che servono al datore di lavoro a «evitare comportamenti illeciti ascrivibili ai singoli dipendenti» e i quali sono legittimi se esiste il «fondato sospetto» proprio di questi comportamenti illeciti.

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Chiarito ciò la domanda da un milione di dollari è un’altra: cos’è una chat aziendale? Se mando su whatsapp qualche messaggino che sbertuccia il capo nel gruppo “ufficio 1b” rischio che lui lo possa leggere? Non è proprio così: una chat aziendale non è un generico gruppo su un canale di messaggistica immediata che può anche comprendere tutti i dipendenti di una determinata azienda ma che ha un’altra funzione. Una chat aziendale è uno strumento di comunicazione interna nato e condiviso tra chi lo utilizza con lo scopo di facilitare le attività di lavoro, di collaborare tra impiegati magari fisicamente distante, di implementare videoconferenze o rendere più facile la lettura delle e-mail. Esistono programmi appositi che fanno questo, software specializzati e calibrati per essere tra i più efficienti possibili. È ancora la Cassazione, con la sentenza numero 5.936 dello scorso marzo, a stabilire che semplici messaggi scambiati su whatsapp in chat “private”, anche se condivise solo coi colleghi, non possono essere usati come prova nelle cause di licenziamento perché per la legge sono da considerarsi spazi non lavorativi. Fiù, non si sarebbe salvato nessuno.

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