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San Siro, lo stadio dei pochi diritti e molti sospetti

In questo scenario, il problema non sono le vere o false coincidenze nella lotta tra poteri. Il problema è l’incapacità dei poteri di uscire dalla propria autoreferenzialità con l’alibi di servire la propria virtù
di Giovanni Guzzetta sabato 8 novembre 2025

4' di lettura

Chissà cosa avrebbe pensato il milanese Cesare Beccaria di fronte alle vicende legate alla vendita di San Siro e alla circostanza della contestuale propalazione di notizie “da fonti giudiziarie” di un’indagine per turbativa d’asta proprio su quell’operazione. Da una parte la politica che la presenta come grande occasione di riqualificazione urbana e, dall’altra, notizie, invero piuttosto generiche, che la dipingono anch’esse come una grande occasione, ma di malaffare. Com’è noto, il pensiero del grande illuminista affonda le proprie radici nell’idea, che ha contrassegnato l’età moderna, di separazione della dimensione giuridica da quella morale. L’idea, cioè, che il diritto, e in particolare il diritto, penale non abbia la funzione di perseguire peccatori da additare al pubblico ludibrio, giustificando l’erezione di “colonne infami” come avrebbe scritto un altro gigante milanese come Alessandro Manzoni. Su quelle radici della modernità, secondo le quali il diritto penale, e chi esercita l’enorme potere di applicarlo, non serve ad attribuire marchi di infamia anche solo sulla base di sospetti, è stata eretta tutta la civiltà giuridica degli ultimi secoli, condensata nella nostra, come in tante Costituzioni, per le quali nessuno può essere considerato colpevole fino a sentenza definitiva.

La certezza del diritto, altro caposaldo del pensiero di Beccaria, è incompatibile con la cultura del sospetto. E la pena, quand’anche irrogata a seguito dell’accertamento processuale di una responsabilità penale, non può mai divenire un giudizio antropologico definitivo, perché anche il condannato deve poter avere la possibilità di una riabilitazione. Non avrebbe alcun senso sennò quanto la nostra Costituzione prevede sulla finalità rieducativa della pena. È questa la differenza tra un tribale marchio d’infamia e una civile repressione dei reati. Cosa c’entra tutto questo con Milano e lo stadio di San Siro? C’entra moltissimo, perché se guardiamo alla vicenda in cui ancora non è successo nulla, né la riqualificazione auspicata dalla politica, né l’accertamento di alcuna responsabilità penale, ci troviamo di fronte a quanto di più lontano dal pensiero di Beccaria e di Manzoni. Non la certezza del diritto, ma la certezza dei sospetti. Il sospetto singolarmente propalato da “fonti giudiziarie” sull’ennesimo episodio di malaffare e il sospetto del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, sulla coincidenza che le notizie dell’indagine siano venute fuori proprio nel giorno dell’annuncio della vendita dello stadio. La guerra dei sospetti diventa così la cifra della nostra civiltà giuridica. Scandisce il momento in cui si confrontano politica e magistratura. E serve a ben poco ricordare che comunque le condanne ci saranno, se ci saranno, solo a conclusione di un giusto processo.

Serve a poco dire che lo stato di diritto è salvo, e che in fondo queste sono solo schermaglie che lasciano il tempo che trovano. Serve a poco perché la cultura diffusa di un paese non si edifica, purtroppo, solo immaginando un cittadino ideale che sospende il giudizio in attesa (per anni, ahinoi, considerata la durata dei processi) di leggere tutte le sentenze che ogni giudice adotta. Saremmo nel mondo delle fantasticherie utopiche talmente irreali quanto irreali erano le utopie totalitarie del ’900. La cultura, soprattutto nel tempo presente, si edifica nel contesto di un “clima” culturale. Alimentato dal sensazionalismo, dall’allusione, dal sospetto, appunto. Che attecchiscono sul terreno di società frammentate, di cittadini stanchi e disillusi, di giornate lastricate di tante piccole ingiustizie, per le quali non ci sono contromisure perché, paradossalmente, troppo piccole perché valga la pena di attivare le teoriche reazioni consentite dall’ordinamento. È questo il clima in cui dilaga il populismo, una tecnica vecchia come il mondo, fondata sull’accaparramento delle frustrazioni che i tanti attori della società si contendono, politica e magistratura incluse. Il populismo della colonna infame non è molto diverso dal populismo del sospetto, eretto indegnamente a degna anticamera della verità.

Poco importa quale sarà alla fine la “verità dei processi”, che come insegnano i grandi penalisti, comunque è solo una, spesso fallace, approssimazione alla verità storica. Quel che conta è la “verità dei sospetti”, con i suoi dividendi istantanei, per definizione insindacabili anche sotto il profilo della responsabilità di chi li enuncia. Chi può essere perseguito per avere un sospetto? Anche la virtù ha bisogno di limiti, ricordava Montesquieu. Ma chi ha oggi il coraggio di rinunciare ai dividendi dell’esistenza appiattita sul presente, per mettere un limite alla propria, presunta, virtù? In questo scenario, il problema non sono le vere o false coincidenze nella lotta tra poteri. Il problema è l’incapacità dei poteri di uscire dalla propria autoreferenzialità con l’alibi di servire la propria virtù. L’esatto contrario di quella separazione tra diritto e peccato per cui Cesare Beccaria è passato alla storia.

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