Gianni Vattimo, morto ieri all’età di 87 anni a Torino (ove era nato il 4 gennaio 1936) passerà alla storia come il teorico del “pensiero debole”, la fortunata formula con cui indicò il suo pensiero agli inizi degli anni Ottanta in un famoso volume collettaneo che curò insieme a Pier Angelo Rovatti. Era un pensiero, il suo, che era maturato in accademia, alla severa scuola estetica torinese di Luigi Pareyson, sviluppandosi poi attraverso le originali interpretazioni di Nietzsche e Heidegger. Ma era anche una prospettiva filosofica radicale che archiviava due millenni e più di storia abbandonando quel logos che era stato il motore che aveva mosso già Socrate-Platone e Aristotele.
VERITÀ E LIBERO GIOCO
Alla verità, fosse pure solo concepita come un ideale regolativo, Vattimo riteneva fosse giunto il momento di sostituire il libero gioco delle interpretazioni. In sostanza, la crisi della ragione occidentale era vista da lui più come un’opportunità che come un momento di declino. Abbandonata la ragione e l’idea stessa di “verità”, infatti, il disincantamento” del mondo che ne sarebbe seguito avrebbe rappresentato finalmente la completa emancipazione dell’uomo, quella liberazione da catene ataviche che le religioni secolari che si erano affermate in epoca moderna, a cominciare dal marxismo, avevano solo promesso ma non realizzato.
PROVOCATORE
Al contrario di altri “pensatori radicali” come lui, Vattimo non si prese mai troppo sul serio, conservando un tono fra il canzonatorio e il provocatorio che fu la sua cifra umana più evidente. Ciò non lo giustifica però davanti alla storia: sua è stata senza dubbio la responsabilità maggiore nella perdita di credibilità del filosofo, diventato col tempo quasi un uomo di spettacolo, più impegnato nei festival che non nello studio. In effetti, l’ultima produzione è stata quasi di maniera, non più all’altezza di quella dei suoi esordi. È come se egli avesse voluto accompagnare la “morte della filosofia” con piena cognizione di causa, quasi rallegrandosene. Oggi è forse giunto il momento di seguire altre vie. E Vattimo stesso forse capirebbe, se è vero che amava i capovolgimenti e le painodie.