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Quando Simenon voleva lo stetoscopio

Nell'inedito italiano Se avessi fatto il medico il papà di Maigret rivela le sue ambizioni col camice
di Francesco Specchia lunedì 27 novembre 2023

Georges Simenon

3' di lettura

Georges Simenon era, tecnicamente, un paraculo letterario invincibile. 

Sempre sul crinale, tra fantasia e realtà, seduzione e narcisismo, vero e verosimile (alla maniera di T.S. Eliot), lo scrittore, un giorno si trasformò in aspirante medico. 

Forse per autentica passione nascosta; o forse perché si trovava davanti alla platea del IV° Congresso della Federazione internazionale dei medici scrittori, be’, fatto sta che Simenon, a Montreux nell’anno 1962, si armò di uno stetoscopio immaginario, e innalzò al cielo la nobile arte di Ippocrate. Quel suo discorso a braccio è diventato un microsaggio di 36 pagine tirato in 600 copie (un gioiellino in carta pregiata, per bibliofili accaniti), Se avessi fatto il medico, inedito in Italia e oggi pubblicato dai tipi iperraffinati di Henry Beyle. Ora, non è chiaro se lo scritto del papà di Maigret avesse semplici intenti di piaggeria, poiché, di quella Federazione Internazionale, lo scrittore venne nominato Presidente onorario; o se davvero, dovendo intrattenere una platea inedita per una decina di minuti, egli avesse voluto divagare su una sua reale passione. Lo scorrere del testo indirizza verso questa seconda ipotesi. 

IL CORPO

«Cosa sarebbe successo se la morte di mio padre non mi avesse costretto ad abbandonare gli studi? Mi sarei iscritto a medicina?», si chiede Simenon «i miei nervi avrebbero resistito alla prima lezione di anatomia, o al suono ossessivo della campanella di cui parla Céline, che annuncia il prete in arrivo per l’estrema unzione e che da chierichetto, durante le visite in ospedale, avevo suonato anch’io?». E poi ricorda la sua particolare affezione per il corpo umano (specie per quello femminile) sin da piccolo quando «ho attinto le mie prime conoscenze in materia sessuale dalle tavole anatomiche, e invece di giocare al meccano mi divertivo a smontare e rimontare uno scheletro». 

E da lì ecco l’elencazione degli «scrittori che erano anche medici», da Cechov a Rabelais, da Schiller a Schnitzler da Munthe a Keats; e degli scrittori che erano figli di medici come Dostoevskij; o degli scrittori che di medici, avevano sempre alta considerazione Chaucer, Cervantes, Shakespeare, Browning, Defoe, Dickens,Mann, Joyce, Balzac peraltro tutti modelli del nostro. Senonché, a quel punto, il lettore abituale di Simenon s’infiamma dei ricordi di tutti i medici che lo scrittore avvolgeva nel personale senso del perturbante: il dottor Kuperus che ne L’assassino uccide moglie e amante nella neve e va pure a letto con la domestica; oppure il dottor Bergelon  dell’omonimo romanzo (entrambi editi in Italia da Adelphi, monopolista simenoniano almeno finora), ossia il medico che lascia morire una puerpera con la complicità dall’altro dottore, Mandalin, entrambi uomini dalla morale sciolta. 

Ed ecco che Simenon evoca anche, d’un tratto, il medico-narratore assoluto nonché suo maestro,Somerset Maugham il quale dichiarava che «per uno scrittore non credo esista un apprendistato migliore di qualche anno nella professione medica. Immagino che sulla natura umana si possa apprendere altrettanto nello studio di un avvocato; solo che fra quelle mura, in sostanza, si ha a che fare con uomini in pieno possesso delle loro facoltà. Può darsi che mentano quanto mentono al medico, ma lo fanno con un calcolo diverso, e questo perché nella maggior parte dei casi un avvocato si occupa di questioni pratiche, quindi non ha bisogno di conoscere la verità». L’avvocato –continuava Maugham, osserva la natura con l’occhio di uno specialista, testa e raziocinio a lama di rasoio. Il medico è diverso. Il medico ispira una narrazione, per l’appunto, corporale, che, per inciso, è quella di Simenon stesso. Il quale Simenon nota pure che in tutti i paesi dove ha vissuto ha sempre stretto amicizia «soprattutto con medici» che fossero medici condotti o di campagna, ricercatori di provincia o baroni di città. 

PENSIERI IN CAMICE

La verità, sostiene Georges dinnanzi al suo attento auditorio, sta nella consapevolezza che sia lo scrittore di gialli che i frequentatori delle sale operatorie e delle corsie, guardano il mondo «dallo stesso angolo prospettico». Cioè: i romanzi, secondo il Simenon-pensiero riportato nella postfazione di Matteo Codignola, «nei casi migliori si possano accostare, anche dal punto di vista stilistico, a referti di casi clinici». 

Il discorso in camice bianco dello scrittore finisce tra gli applausi stordenti degli astanti. Resta il sospetto che, se avesse avuto davanti un manipolo di magistrati, Simenon, geniale paraculo, avrebbe indossato la toga, magari citando a gran voce il giudice Porfirij Petrovic, del Delitto e castigo di Dostoevskij...

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