Una caduta in motorino per scoprire il reale. Cadere dal pero, espressione idiomatica sgradevole ma a cui si indulge poiché adatta per descrivere quanto raccontato da Michele Serra. Dalle colonne di Repubblica ragiona su «Chi manda avanti il mondo», come da titolo dell’Amaca da cui categorizza, divide il “bene” dal “male”. E a causa del suo “male” - la caduta in scooter a Milano - ieri raccontava il “bene”: a mandare avanti il mondo sono «soccorritori e barellieri, infermieri e medici». Ineccepibile.
«Sono finito in ambulanza al pronto soccorso. Milano, ospedale Fatebenefratelli». Viene «visitato, medicato, radiografato, suturato, disinfettato, incerottato come una mummia, infine dimesso perché non avevo niente di rotto». Nulla di eccezionale per la bistrattata sanità lombarda («Per il servizio sanitario nazionale: hip hip hurrà!», si scioglie).
Eppure la prossimità con quei corpi intermedi, con discreta evidenza un humus antropologico a cui è poco avvezzo, lo colpisce nel profondo. Scopre che «i pronto soccorso non sono luoghi facili», poiché «c’è il dolore e lo spavento», c’è addirittura «quello che urla, quella che piange, quello che non vuole aspettare, ci sono il sangue, il pallore, lo sgomento, l’attesa e la paura». Insomma c’è il reale. E qui si inizia ad eccepire. Per Serra «ci si sente più indifesi, più guardinghi, più irascibili».
Percezione che mi ha infastidito. Per recenti trascorsi contrari ad ogni mia ambizione ho frequentato molto pronto soccorso e ospedale. Mi sentivo difeso, per nulla guardingo o irascibile, semmai fragile e solidale, empatico. Sarò presuntuoso, ma sospetto che il percepito di Serra piuttosto sia figlio dell’inconsuetudine.
Emblematico in tal senso il passaggio sulle «innominate donne in camice che mi hanno soccorso, sopportato e curato»: «Le ho sentite mie simili, e mi è sembrato che anche loro mi trattassero come un loro simile», riflette Serra. Ma che intende? Parla della dimensione eroica del personale medico (dall’infermiere che maneggia dove non vorremmo mai metter mano al chirurgo che sferruzza tra le arterie per allungarci la vita) o parla della distanza tra se stesso e un contesto avulso, distanza che emerge involontariamente, con riflesso pavloviano, dalle sue parole? Tant’è, scrive anche della «fortuna di essere accolto e assistito da una specie di pool di sole donne»; «attorno alla mia barella insanguinata c’erano tre giovani dottoresse e una giovanissima infermiera che, se il mondo funzionasse per il verso giusto, dovrebbe essere nominata primario entro una settimana». Le ragioni per le quali dovrebbe essere primario non sono circostanziate: se ne può dedurre che il merito sia quello di averlo soccorso (nel caso, un egocentrismo desolante). Eppoi perché l’essere accudito da un «pool di sole donne» dovrebbe essere una fortuna? Troverei la considerazione umiliante in primis se fossi donna, una specie di carezza al mio “pet”, un buffetto da arruffapopolo.
Ma l’inciso più controverso è «se il mondo funzionasse nel verso giusto»: in che ingiustizia si è imbattuto Michele Serra? A meno che il non essere tutti primari sia in sé un torto. Sarebbe folle, tanto che – clamorosamente – nel successivo capoverso cade in contraddizione: «Ho pensato che il mondo funziona, incredibilmente, e a dispetto delle sue spaventose tare, per merito delle persone. Che sono le persone, una per una, a impedire che prevalga il caos». Presa di coscienza tardiva: il mondo da sempre e per sempre funziona (o non funziona) per meriti e demeriti delle persone. Presa di coscienza certamente transitoria: archiviate bende e sbucciature, archiviato il tuffo nel reale, ossia «in questo mare procelloso» che è il pronto soccorso, Michele Serra tornerà ad appollaiarsi sull’amaca, dove è una persona più persona degli altri.