I l profilo del cavaliere di Seingalt lo ritrovi dappertutto sui manifesti, il suo nome campeggia sulle insegne di locali, negozi, hotel. Eppure, nella sua esperienza di vita in Boemia, tredici anni nella biblioteca del castello del conte Josef Karel Valdštejn (Joseph Karl Emmanuel Waldstein), non gli vennero risparmiate amarezze e persino penose umiliazioni. Lui era Giacomo Casanova, più mito oggi che nel XVIII secolo attraversato sempre sopra le righe, epoca in cui ebbe il tempo di vedere, oltre al proprio decadimento fisico anche il crollo del gran mondo al quale ambiva appartenere.
Dopo un anno di intensi e impegnativi lavori di restauro curati dall’ingegner Bedrich Hrabovsky, il castello di Duchcov ha riaperto ieri l’ala che dal 1785 al 1798 fu l’ultimo teatro della vita di Casanova, celebrato nel tricentenario della nascita con tutti gli onori che come bibliotecario del conte non gli vennero mai tributati. Quel veneziano cosmopolita che ovviamente non parlava ceco e neppure tedesco, assunto con l’incarico di catalogare i circa 24.000 volumi della biblioteca di Valdštejn, nel castello poteva comunicare in francese col solo valletto Caumont; il conte non c’era mai e il resto della servitù lo osteggiò e derise con l’orchestrazione del maggiordomo Georg Faultkirchner assieme al cocchiere Wiederholt. Si diceva dei due che fossero amanti, e già questo sapeva di beffa per il grande amatore di donne Casanova, dal passato glorioso che nessuno in quel castello rispettava.
Doveva dividere la mensa con la servitù, e già questo per lui era un disonore. Il maggiordomo una volta gli aveva persino messo le mani addosso. E non solo: il veneziano aveva fatto realizzare un medaglione col suo profilo nel marzo 1788, inciso in acquaforte da Johann Berka e usato come frontespizio per l’Icosameron, che Faultkirchner e Wiederholt avevano strappato e appeso alla porta della latrina. Si era vendicato con la penna, che intanto adoperava senza risparmio nel rimettere ordine in forma letteraria sulla sua vita sregolata ed eccessiva, e per questo veniva accusato dalla madre del conte, la principessa Lichtenstein, di non fare il suo lavoro e di non guadagnarsi lo stipendio. Scrisse così, nel 1792, ventuno lettere a un maggiordomo nel quale era facile identificare il suo persecutore, ma non le spedì mai: l’intenzione era quella di farle tradurre in seguito in tedesco. Per far cessare nell’immediato quella penosa situazione si rivolse però anche al sindaco di Dux (così si chiamava all’epoca la città di 12.000 abitanti) indirizzandogli lettere in latino, e persino al giudice del posto, senza alcun esito. Sarà il conte Valdštejn a fare giustizia licenziando il maggiordomo, ma tutta la vicenda aveva ormai il sapore della decadenza, non solo personale.
La rivoluzione francese del 1789 aveva spazzato l’ancien régime al quale Casanova ambiva appartenere, e Napoleone col trattato di Campoformio nel 1797 aveva cancellato con una firma la storia ultramillenaria di Venezia, l’anno prima che chiudesse gli occhi, il 4 giugno, su una poltrona del castello di Duchcov. Triste, solitario yfinal. Aveva lasciato una corposa produzione letteraria che sarà la base della creazione del suo mito di avventuriero, spia, amante seriale (nelle memorie parla di 130 donne), cultore di esoterismo, massone, amico vero o presunto dei grandi contemporanei. Come Wolfgang Amadeus Mozart, col quale era in rapporti stretti. Non sappiamo se il 29 ottobre 1787 Casanova fosse presente alla prima del Don Giovanni al Teatro degli Stati di Praga, ma è facile dedurre che quel centinaio di chilometri di distanza non fossero un ostacolo per rinnovare l’abbraccio con l’amico compositore e direttore e apprezzare l’opera-capolavoro dove poteva ritrovare una parte di sé stesso, quella più splendente e più autocompiacente.
La sua non fu una fine degna del personaggio, perché piagato da problemi di salute, dai dolori fisici e dall’amarezza di una grandezza scolorita nel grigiore del declino. Dalla morte trascorrerà circa un trentennio prima della sua consacrazione internazionale, e questo grazie a un nipote, Carlo Angiolini, che si recherà a Duchcov per prendere i manoscritti delle sue Memoires e portarli con sé a Dresda. Solo dopo qualche anno l’Histoire de ma vie sarà pubblicata a Lipsia nella traduzione in tedesco, che all’editore varrà una fortuna e all’autore darà la fama arrivata ai giorni nostri. E questo nonostante le censure e i tagli apportati al testo, perché libertinaggio e licenziosità erano contrari alla morale del tempo. Quegli stessi aspetti che al contemporaneo Pietro Chiari, un bresciano commediografo e gesuita, l’avevano fatto sbrigativamente definire «vanesio» e descrivere ironicamente: «sarebbe un bell’uomo, se non fosse brutto. Alto, piantato come un Ercole, ma con un colorito africano». Quell’uomo alto un metro e 90 sarebbe diventato l’incarnazione del libertinaggio, dando il suo nome a chiunque avrebbe provato a ripercorrerne i passi: un casanova. All’unico e inimitabile, del quale il solo Gabriele d’Annunzio sarà capace di rinverdire le gesta e forse persino a superarlo, il destino riservò di scomparire, come si conviene a una leggenda. Le sue spoglie furono sepolte nel cimitero della chiesa di S. Barbara, adiacente la dimora nobiliare. Ma negli Anni ’30 i lavori di risistemazione dell’area cancellarono ogni traccia della tomba del cavaliere di Seingalt. Le sue ossa sono oggi da qualche parte sotto al manto verde del grande parco-giardino separato dal castello di Duchcov da una fontana ornamentale nel quale si rispecchia e dalle cui finestre Casanova ripensava a ciò che era e a quello che era stato.