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Beatrice Venezi, l'Italia dell'insulto contro il direttore d'orchestra

C’è qualcosa di irresistibilmente triste - e al tempo stesso tragicomico - nel florilegio di cattiverie che in questi giorni si è abbattuto sul direttore d'orchestra
di Enrico Stinchelli martedì 7 ottobre 2025

3' di lettura

C’è qualcosa di irresistibilmente triste — e al tempo stesso tragicomico — nel florilegio di insulti che in questi giorni si è abbattuto su Beatrice Venezi. Un penoso teatrino che ricorda più la fiera del rancore che un dibattito culturale. Si va dall’«impostora» al «fenomeno mediatico da reality», fino alle perle più raffinate del web: «dirige come una maestra d’asilo con la bacchetta magica» o «è la Barbie del podio». E come sempre accade, più l’insulto è rozzo, più viene condiviso con soddisfazione da chi non ha mai impugnato una bacchetta in vita propria. Dietro il sarcasmo e la violenza verbale si nasconde il vecchio vizio italiano: l’insofferenza per chi riesce. Perché la Venezi, che piaccia o meno, ha saputo costruirsi un’immagine riconoscibile, parlare ai media e far arrivare la musica classica anche a chi non la frequenta. È questo, non altro, il suo “reato”: aver reso popolare ciò che molti vorrebbero restasse confinato alle élite.

È sui social che esplode il florilegio dell’odio, un piccolo bestiario di commenti che racconta più dei loro autori che della destinataria: «Incapace», «inadatta», «non è un direttore d’orchestra», «senza esperienza». Qualcuno aggiunge, con spirito da bar dello sport: «Però il culo non è male». Altri, più raffinati, la mandano «a fare in culo» direttamente, dandole della «raccomandata». C’è chi ironizza con soprannomi d’autore — “Bacchetta Nera”, coniato da D’Agostino — e chi arriva a evocare la battuta “Morte a Venezi”, parafrasando Visconti, trovando pure un critico musicale che replica: «No, non morta? Viva ma privata della sua bacchetta». E non mancano gli attacchi collaterali, come quello all’avvocato che la difende, subito bollato come «l’avvocato dei mafiosi».

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Un campionario miserabile, utile a capire l’Italia di oggi: il Paese dove l’odio è sempre una forma di autocompiacimento e il dileggio diventa sport nazionale. Tralasciando il pessimo gusto della stroncatura tecnica effettuata sul Corriere della sera dal maestro Fabio Luisi, candidato per la stessa nomina poi assegnata alla Venezi dal Sovrintendente della Fenice, c’è un’altra categoria di insulto, più sottile e velenosa: quella che si traveste da consiglio paterno. Il caso esemplare è l’articolo di Mattioli su La Stampa, dove l’antipatia si maschera da benevolenza. Con tono sornione si ammonisce la direttrice a “guardarsi dai suoi amici”, quasi che la vera minaccia venisse da chi la sostiene, e non da chi la denigra quotidianamente. È il colpo di fioretto che finge un abbraccio, ma mira a isolare la vittima. È una forma di ipocrisia antica, quella che usa la premura per disarmare moralmente chi è nel mirino.

Ma tutto questo non è nuovo. Anche Maria Callas, prima dei trionfi scaligeri, fu massacrata da critici e pubblico, apostrofata come “grassona” e “befana”. Luciano Pavarotti, nel pieno del successo americano, fu tacciato in patria di “volgarità” e “gigantismo commerciale”; il suo ex agente Breslin scrisse un libro intero per distruggerlo. Persino Enrico Caruso, durante una serata a Napoli, fu fischiato e stroncato — salvo poi diventare il simbolo stesso del canto italiano nel mondo. Ciò che colpisce nel caso Venezi non è tanto la polemica — fisiologica, in un Paese che vive di discussioni — quanto la gioia cattiva con cui molti ne accompagnano le difficoltà. Invece di discutere di musica, ci si accanisce sulla persona: l’abito, i capelli, il tono di voce, il modo di muovere le mani. È il trionfo del pettegolezzo travestito da critica. Ma se davvero la Venezi fosse irrilevante, non se ne parlerebbe tanto. L’odio è sempre una forma distorta d’attenzione — e forse, il suo più involontario complimento.

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