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All’Europa serve la scossa per tornare fra le potenze

La guerra e la crescita economica coesistono sullo scacchiere mondiale. E anche il Vecchio Continente investe sulla difesa per rientrare in gioco
di Costanza Cavalli domenica 9 novembre 2025

Maurizio Molinari

4' di lettura

Il nuovo saggio di Maurizio Molinari è un volume pesante, con le parole scritte grandi e le pagine così spesse che nel girarle vien sempre da far scorrere l’indice e il pollice sull’angolo per aver la certezza di non averne saltata una. È colorato, perché ci sono mappe e diagrammi e tabelle piene di dati, ed è rivestito da una rassicurante copertina azzurro acquamarina che ricorda un romanzo illustrato per ragazzi, Viaggio al centro della terra, I pirati della Malesia, Le miniere di re Salomone. La scossa globale (Rizzoli, 22 euro, 282 pp.) somiglia al suo autore, che scrive come quando, in tv, spiega paternamente e con entomologica precisione cose da far tremare le vene ai polsi. Molinari parla a mezzo volume con inflessione mononòta (ogni tanto strabuzza appena gli occhi e solleva le sopracciglia, ed è il massimo dell’emozione che si concede), il contrario di qualunque altro ospite dei salotti tv cosicché al randagio spettatore disorientato dal traffico, dalle luci, dalle urla dello schermo, sembra di esser preso per mano e riportato alla scrivania a rimetter la testa su un libro di storia.

L’ex direttore di Repubblica e della Stampa si può leggere ascoltandolo, compresa la “r” uvulare. Mette i titoletti e va anche a capo, quasi dopo ogni periodo, come a dire «quello che sta succedendo nel mondo ve lo spiego piano e con respiri lunghi perché non vi vengano le palpitazioni», che è la naturale reazione di chiunque non si limita a stare a cavalcioni del presente ma cerca di afferrarne le redini. La scossa globale è il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, il presidente gonzo sempre in bilico tra dazi e armi, pace e guerra, diplomazia e forza. La sua politica è la reazione obbligata ai disastri che la globalizzazione e un ordine internazionale liberale sfarinato hanno inoculato nei forgotten men, i dimenticati cantati dal vicepresidente J.D. Vance, che si son visti chiudere le acciaierie a causa della concorrenza cinese e, in cambio, ci han guadagnato il fentanyl. Il tycoon, nato dalle braci della vendetta della classe media impoverita, lavora alla ricostruzione della fortezza americana a partire dalla Silicon Valley, in un planisfero dalla topografia cangiante (vedi Russia e Cina) e nell’era dell’intelligenza artificiale, dei data center, delle terre rare, delle criptovalute, dei cavi sottomarini, delle rotte commerciali, della competizione spaziale, della biologia molecolare. Tre i possibili esiti, scrive Molinari: «Un nuovo equilibrio globale sulle sfere di influenza rispetto a Mosca e Pechino; un cortocircuitoplanetario e dunque una fase di conflitti, diretti o per procura, fra Usa, Cina e Russia, con dimensioni e conseguenze senza precedenti; una stagione di endemica instabilità con un domino di crisi, militari ed economiche, in più scenari, che moltiplicheranno l’instabilità globale».

L’inviolabilità dei confini, intanto, stabilita nel 1648 con il trattato di Westfalia, s’è dissolta con l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia, a partire dall’annessione della Crimea nel 2014, e con l’attacco di Hamas allo Stato ebraico. La Cina maramaldeggia davanti alle coste di Taiwan, per farla tornare assieme alla Madrepatria, e gli Stati Uniti sfidano Groenlandia e Panama per la logica del “chi possiede, controlla”. L’instabilità di oggi, inoltre, è ancor più spaventosa perché è feconda: se un tempo la pace era conditio sine qua non alla prosperità, oggi guerra analogica e guerra ibrida coesistono con la crescita economica. È già successo, dice Molinari, nei secoli della Repubblica di Venezia ed è stata la fortuna dell’Impero cinese. Non è di conforto per l’Europa, culla dell’Occidente sballottata nei marosi delle tensioni tra superpotenze e con una sicurezza atrofizzata da ottant’anni di free riding in prima classe grazie al protettorato americano. Fondata sulla leadership collettiva, l’Unione europea è carente proprio nelle caratteristiche che più servirebbero, l’equilibrio e l’agilità.

Per questo, scrive Molinari, siamo di fronte a un bivio: possiamo rafforzarci e diventare una potenza globale attraverso le riforme (l’eliminazione del diritto di veto tra i 27, per esempio, e il completamento dell’Unione bancaria), «oppure cedere alle pressioni interne del populismo e implodere, con il risultato di frammentarsi e diventare più fragile e vulnerabile». Un solo Paese, sottolinea, può correre in aiuto degli europei, ed è la Germania, lo Stato più ricco, più grande, più popoloso, che sta mettendo mano con serietà alla sua difesa. Se ci fosse da scegliere, direttore, non ci dispiacerebbe la prima strada: Berlino ha una demografia in caduta libera, un’economia costruita sulla globalizzazione (Rip) ed è costretta a pensare alle armi a settant’anni dal Trattato di Roma, e la storia insegna che quando i tedeschi mettono la sicurezza al primo punto in agenda le cose non finiscono bene.

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