Come ogni fine anno, ormai una tradizione, la kermesse di Atreju attira a sé sempre di più personaggi che esulano dal mondo della politica e soprattutto quella di centro-destra. Scrittori, attori, protagonisti del mondo dello spettacolo partecipano attivamente ai dibattiti in un confronto di idee che non può non essere costruttivo. Tra questi c’è stata quest’anno anche Chiara Francini, attrice e scrittrice, ospite dell’evento con il suo ultimo romanzo “Le querce non fanno limoni”, che parla di fascismo, Resistenza e Brigate Rosse.
E ha raccontato la sua esperienza scrivendo una lettera a “La Stampa” in cui, di fatto, stronca chi ha disertato Atreju, compresa la leader del PD, Elly Schlein. Afferma Francini: Viviamo in un tempo che ha bisogno di semplificare, di ridurre tutto. Ogni gesto, ogni parola viene soffocata in strettoie che tolgono luce, spirito critico e dignità. Le parole devono essere arruolate, inchiodate a un ‘pro’ o a un ‘contro’. Vai ad Atreju: ‘sei dei loro’, sei fascista. Vai alla Festa dell’Unità: sei comunista. Se non butti giù e ingoi le due uniche possibilità che ti vengono concesse, sei strana, indecisa, non sei chiara. Ma la realtà è un fatto complesso. E affrontarla richiede tempo, profondità, esercizio. Richiede fatica. E questo bipolarismo povero, piccino, che confonde la politica con il tifo, il pensiero con l’appartenenza è un meccanismo comodo, perché solleva dalla fatica del pensare. Ma è anche mortale, perché semplificare male un pensiero è il modo più rapido per farlo morire. E quando un pensiero muore, nasce la dittatura”.
Quindi, l’affondo esplicito alla Schlein: “Le battaglie che contano - quelle per i diritti delle donne, delle persone omosessuali, transgender, dei malati, dei poveri, degli ultimi, di chiunque abbia avuto meno voce - non avanzano quando ci si rintana. Avanzano quando ci si espone. Quando si attraversano i luoghi che sembrano lontani e si porta lì la propria storia, la propria verità, la propria idea di giustizia e la propria presenza. I diritti crescono nella luce. Non nei pozzi. Non nelle assenze che non sono coraggiose, ma prudenti. E il dialogo - quello vero - è la forma più alta di responsabilità. E di rischio. Perché dialogare significa accettare di essere fraintesi, contestati, messi in discussione. Ma significa anche tenere in mano la possibilità più bella e scomoda di tutte: capire. E la comprensione è una rivoluzione lenta, ma irreversibile”.