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Paolo Crepet: "Utero in affitto? Perché mi fa venire i brividi"

di Pietro De Leo mercoledì 22 marzo 2023

3' di lettura

«Mi fa venire i brividi che un dibattito su un tema così delicato e complicato sia tirato da una parte e dell’altra con delle ideologie». Libero contatta Paolo Crepet, psichiatra, sociologo e saggista per tracciare un quadro sul confronto pubblico molto acceso su omogenitorialità ed utero in affitto.

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Sul piano della maturazione e della psiche dei bambini, avere una mamma o un papà, oppure due papà o due mamme, è davvero la stessa cosa?
«Non è che una formula precostituita garantisca a prescindere il benessere psicologico dei bambini. Bisogna vedere con quali papà, quali mamme, quali uomini o quali donne».

Spesso si parla, però, della necessità, da parte del bambino, di vivere la differenza che si crea nel rapporto con il papà e la mamma. Questa cosa esiste?
«Se esistesse, avremmo dovuto porci questa domanda 40 anni fa, quando abbiamo capito che la scuola era diventata un mondo femminile. Io sono abbastanza vecchio e ricordo la figura del “maestro” nella scuola elementare. Oggi lo devi andare a cercare con il lanternino. I millennials sono venuti fuori da un gineceo. Hanno davanti donne per 5 ore a scuola, poi tornano a casa e trovano la mamma, magari la zia e la nonna. Con il papà che arriva alle 8 di sera. Tutto ciò non comporta un danno psicologico e non sono cresciute generazioni di mostri paranoici».

Lei sostiene che il dibattito in corso sia troppo viziato dalle ideologie. E smonta il primato della famiglia naturale. Però, dall’altra parte, non c’è anche l’estremizzazione della genitorialità come desiderio?
«La genitorialità non è un diritto dei soli genitori, ma deve corrispondere anche ai diritti dei nascituri. Vale per tutti, eterosessuali e omosessuali. Adottare è una cosa bella, ma complicata. È un tema che implica una scelta».

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Bisogna capire fino a che punto ci si possa spingere.
«Certo. So dove vuole arrivare. La pratica dell’utero in affitto, quest’idea che si possa scegliere una mamma, mi fa venire i brividi. Una mamma non si sceglie. E lo dico pur essendo del tutto estraneo a qualsiasi neofascismo culturale. Posso capire il desiderio umano di maternità, ma è un tema complesso. Ho dei dubbi anche su quelle mamme che vogliono mettere al mondo un figlio a 50 anni. Per 49 anni fanno quello che vogliono, poi sul viale del tramonto hanno questa voglia di un figlio che si laureerà quando loro saranno in RSA. Io sono un liberal, ma questo non vuol dire ‘no limits’. Se due donne o due uomini si amano, che si amino. Se vogliono andare a trovare la compagna o il compagno in ospedale, devono poterlo fare. Se vogliono lasciare a lei o a lui l’eredità, devono poterlo fare. Ma poi ad un certo punto bisogna fermarsi. Anche perché poi in un momento della vita arriva una questione identitaria».

Cosa intende?

«Che il bambino adottato, o la bambina, si chiede: chi è mio padre? Chi è mia madre? Da dove vengo? Questo può avvenire sulla spinta di cause diverse o in contesti diversi, ma è una questione che esiste ed è molto complicata. Noi, tra psicoterapeuti e neuropsichiatri infantili, ci siamo occupati di molti casi del genere. E parlo in generale, perché ciò avviene anche in casi di adozioni da parte di coppie formate da uomo e una donna».

Ma questa domanda, “da dove vengo” e “chi è mio papà o mia mamma”, non rischiano di essere più complicata nei bambini di coppie omogenitoriali?

«Potrebbe esserlo sì. E bisogna vedere caso per caso. Partiamo dal fatto concreto: “Visto che papà e papà non possono avere figli, come sono arrivato qua?”. Possono esserci situazioni varie: caso A: la mamma era la fidanzatina del padre prima che scoprisse di essere omosessuale e poi se n’è andata. Questo è facilmente risolvibile. Caso B: se la mamma è una signora che ha messo a disposizione la sua gravidanza per contratto, non si può sapere chi sia, che fa, dove abita; questo non ha nulla di buono nei confronti dei diritti di un bambino». 

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