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Massimo Giletti fatto fuori? Tutti muti: la "censura" vale solo per Santoro e Fedez

di Claudio Brigliadori giovedì 20 aprile 2023

7' di lettura

Ah, i bei tempi dell'Editto bulgaro. Sì che quella era censura. Per Massimo Giletti, invece, la parolina tanto amata dalla stampa e dai salotti di sinistra (specie quando governa la destra) è diventata un tabù. Non si può usare. E non si può nemmeno fare gli auguri di un pronto ritorno in tv del conduttore di La7, che rimane "a disposizione dell'azienda per il resto della stagione". Vale a dire, congelato fino a giugno, perché visti i rapporti ormai azzerati con l'editore Urbano Cairo l'ipotesi di rivederlo in onda in questa fine di stagione appare appartenere al campo della fantascienza. 

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TUTTI ZITTI
Vietato parlare di censura, dunque, anche se i presupposti ci sarebbero tutti e non a caso la sospensione immediata e improvvisa di Non è l'arena (presenza fissa dei palinsesti dal 2017 e sicurezza della domenica sera tranne un tentativo al mercoledì) ha dato vita ai complottismi più spinti. "Costi troppo alti" e "raccolta pubblicitaria deficitaria" le piste ufficiose, con l'indiscreto del Foglio che ha parlato di 150mila euro di perdite a puntata. "Insostenibile". Poi c'è chi tira in ballo una vendetta di Cairo che ha deciso di mettere in panchina uno dei volti più celebri della sua scuderia come "vendetta" per gli abboccamenti con la Rai. Un controsenso, visto che di fatto Non è l'arena non ha sostituti all'altezza e nulla è stato approntato, nonostante la pausa di Pasqua. Segno che la scelta è stata rapida, su due piedi. Secondo Sandra Amurri e Francesco Fagnani, Giletti avrebbe pagato le inchieste scomode (anzi, troppo scomode) in cantiere per le prossime settimane, su mafia, politica e stragi. Con contorno per così dire "di facciata" dei 30mila euro che ha fatto versare a Salvatore Baiardo, ex uomo di fiducia dei boss Graviano, per averlo in studio. Insomma, Giletti non doveva più parlare, doveva essere "eliminato" non fisicamente ma mediaticamente. Il diretto interessato non parla (pare, per non incorrere in problemi legali visto che ha un contratto in essere che scade a fine giugno), Cairo si limita a dire che il giornalista ha avuto sempre piena libertà. Già, ma tutti gli altri uomini e donne di La7? E i colleghi della Rai e di Mediaset? E le firme di Repubblica, Stampa, Corriere? Singolare che il sostegno a Giletti sia arrivato, direttamente e pubblicamente, solo da donne di viale Mazzini. Bianca Berlinguer, che a CartaBianca su Rai 3 si è presa un minuto per salutare "l'amico Massimo" augurandosi un suo ritorno in onda. E la Fagnani, appunto, che ha parlato di "Brutto segnale". E che ha suggerito come per lui "la libertà di stampa finisce dove inizia quella di uno che ci sta antipatico". Perché Giletti "non è di sinistra, anzi mostra confidenza con i leader della destra, ammicca da piacione alla telecamera e piace più alla pancia del suo pubblico che ai critici e ai colleghi. Ma allora come funziona la difesa dell'informazione?".  

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GELO A LA7
La risposta la dà già Lady Mentana, sempre nel suo articolo pubblicato dalla Stampa: "La trasmissione di Sabina Guzzanti Raiot, un atto di evidente censura, fu considerato da tutti. Senza dire per citare i casi più clamorosi dell'indignazione e della mobilitazione provocate vent'anni fa dall'editto bulgaro, pronunciato da Sofia dall'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nei confronti di Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi, estromessi dalla Rai. Cosa ha di diverso Giletti da loro?". Come detto, è estraneo al bel mondo del giornalismo de sinistra. E quando aveva ricevuto le prime minacce di mafia ed era finito sotto scorta, aveva pubblicamente accusato la sua stessa rete: "Mi sono sentito solo, amareggiato perché mi aspettavo un segnale da certi colleghi vicini, penso a Gruber, Formigli, Floris. Gli unici a farsi sentire invece sono stati Myrta Merlino ed Enrico Mentana". 

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CADUTE E MUTANDONI
Intendiamoci, parlare di censura e provvedimenti politici per media privati è decisamente più complicato che farlo per viale Mazzini, dove le ingerenze politiche sono più dirette e per così dire riconosciute (e accettate). Però il tema della libertà di stampa e della trasparenza di certe decisioni resta. Per decenni, in Rai, i temi più caldi erano quelli sociali e di costume. Di satira, potremmo dire. Nel 1959 a rimetterci le penne sono Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che a Un due tre osarono prendere in giro il presidente della Repubblica Gronchi che era caduto dalla sua poltroncina alla Scala. Nel 1961 furono gli scandalosi "mutandoni" delle gemelle Kessler a Giardino d'inverno a finire sotto la mannaia dei censori, che costrinsero le teutoniche sex symbol a coprirsi. C'entra invece la politica nella decisione di far fuori Dario Fo e Franca Rame per gli sketch di Canzonissima 1962 su morti bianche e mafia. Preistoria? Sì, ma non troppo. Zittiti anche musicisti e attori, troppo sopra le righe. 

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CONCERTONI STONATI
Un capitolo a tal proposito lo merita il Concertone del Primo maggio. Nel 1991 la regia Rai taglia in diretta Elio e le Storie tese, per aver pronunciato dal palco romano "Andreotti è stato giudicato dalla Corte inquisitoria per un caso di depistaggio, il caso è stato archiviato come altri 410 su 411". Nel 2021 invece tocca a Fedez, che prima di esibirsi denuncia di essere stato raggiunto dai vertici Rai 3 che chiedevano di conoscere il contenuto del suo intervento. Quindi, una volta in diretta, si scaglia contro il senatore leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia del Senato e relatore del ddl Zan sull'omofobia e la transfobia. Ne nasce un caso nazionale, i 5 Stelle e il Pd si indignano. Ma è andato tutto in onda. Curioso come poco meno di due anni dopo, sempre il rapper-attivista abbia riproposto più o meno gli stessi argomenti e gli stessi toni ma al Festival di Sanremo. Nessuno gli ha messo il bavaglio, e dire che governa il centrodestra.

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GRILLO IL CINESE
Beppe Grillo
ha denunciato l'embargo Rai che lo ha colpito per 7 anni, dal 1986 al 1993. Colpa di un paio di battute di fuoco contro Bettino Craxi. In particolare, di una battuta al veleno sul viaggio dell'allora premier socialista in Cina. "Giunto a Pechino, l'avevano avvertito: 'Sa, presidente, qui siamo tutti socialisti'. E lui aveva risposto: 'Ma allora a chi rubate?'". Poi arriva Tangentopoli e fare ironie su Psi e Dc non solo è lecito, ma pure doveroso. "Quando lavoravo alla Rai, ogni sabato sera, prima di andare in onda, mi chiamava il direttore generale Biagio Agnes - ricordava sempre il fondatore dei 5 Stelle - 'Con la stima che ci lega, signor Grillo, si ricordi che lei si rivolge alle famiglie'. Io regolarmente rispondevo: 'Non c'è nessuna stima, signor Agnes, fra me e la sua famiglia...'. Poi, subito dopo la sigla, avvertivo il pubblico: 'Pochi minuti fa mi ha telefonato il direttore generale e ha cercato di corrompermi'. La censura della Rai democristiana non era brutale e intimidatoria, violenta e ottusa come quella di oggi. Non cercava di annientarti, di rovinarti con le denunce. Era più bonaria, famigliare, melliflua. Si presentava col volto del vecchio zio burbero benefico, che ti dà buoni consigli per il tuo bene. E tu, con un po' di astuzia, la potevi aggirare. Ecco, quella censura metteva alla prova la creatività del censurato, quasi lo sfidava ad aggirare l'ostacolo. Poi arrivò Craxi e cambiò tutto". 

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ABBASSO IL CAV, VIVA IL CAV
Ma il vero salto di qualità per la censura (e chi grida ad essa) arriva inevitabilmente con Silvio Berlusconi in politica. Il caso più clamoroso, appunto, è l'Editto Bulgaro. E' il 18 aprile 2002 e al premier, a Sofia, chiedono un commento sulle nomine Rai e lui auspica un cambio di registro: "L'uso che Biagi... Come si chiama quell'altro? Santoro... Ma l'altro? Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga". Enzo Biagi con Il Fatto, Michele Santoro con Sciuscià e Daniele Luttazzi con Satyricon dopo poche settimane vengono estromessi dai palinsesti, dando la possibilità all'opposizione di gridare al regime per almeno un decennio. Stesso destino per Raiot di Sabina Guzzanti, pochi mesi dopo. Marginale, per la sinistra, il fatto che tutti i censurati abbiano continuato a essere protagonisti del dibattito televisivo e culturale italiano, anzi trovando dei megafoni forse ancora maggiori. Un esempio: quando Berlusconi va in tv da Santoro nel 2013 a Servizio pubblico (su La7), gli ascolti esplodono anche grazie all'effetto attesa, un evento tv che sa di resa dei conti tra due nemici. Non è così, perché la rissa in studio (con Travaglio) si risolve in realtà in un confronto a suo modo affettuoso tra Silvio e Zio Michele. Siano benedetti i diktat, per i professionisti dell'anti-censura.

QUESTIONE DI STORYTELLING
La verità, è che a viale Mazzini anche quando governa la destra tira sempre un'arietta conformista, politicamente corretta, e dunque progressista. Lo stesso Giletti nel 2017 denuncia le pressioni per fare fuori lui e il suo talk L'arena, con divorzio assai rumoroso e approdo a La7. Secondo il conduttore, i rapporti erano diventati assai tesi perché la trasmissione non sposava lo "storytelling" proposto in quegli anni da Matteo Renzi e dal Pd (in quei mesi a Palazzo Chigi c'era Paolo Gentiloni). E per questo le relazioni con i dirigenti dell'epoca si erano ridotte ai minimi termini. Chi va controcorrente, in viale Mazzini, rischia. Ne sa qualcosa anche la Berlinguer, che qualche mese fa è finita nella bufera per ospitare Alessandro Orsini, il professore esperto di geopolitica tra i primi a mettere in dubbio l'appoggio italiano all'Ucraina. C'è chi chiede di far fuori l'ospite, "filo-russo" e impresentabile. Chi addirittura propone di chiudere il programma di Rai 3 fino a che l'ex direttrice del Tg3 non accetti la linea governista. Alla fine però la spunta la Zarina, anche grazie agli ascolti e al clamore che ogni martedì sera genera Orsini. Nell'ultima puntata non c'era. Ma, giura la Berlinguer, "tornerà presto".

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