«Saremo un milione». Così annunciavano entusiasti gli organizzatori del gay pride romano poche ore prima che iniziasse la sfilata. La tirannia del numero, cioè della quantità, sembra essersi definitivamente impossessata anche di quella che un tempo era un’orgogliosa minoranza.
D’altronde che ha a che vedere la raffinatezza e la sottile sprezzatura anticonformista di un gay dell’età vittoriana come Oscar Wilde con la pacchiana esibizione seminuda, con tanto di frustini e borchie, di attempati signori di ogni classe sociale che sfila sui carri allegorici in questo genere di manifestazioni? Quest’anno poi, insieme alle bandiere arcobaleno, erano ben visibili a Roma pure gli striscioni dell’Anpi.
È l’uso strumentale di un antifascismo presunto che col fascismo sembra avere molti tratti in comune, in primo luogo quello di pretendere un conformismo di massa e mettere al bando chi solo osa manifestare qualche piccolo dubbio. Ieri a Roma c’è stata perciò l’ennesima prova della normalizzazione e omologazione del movimento gay, che da spina libertaria nel sistema si è fatto a sua volta sistema o, meglio, è stato da esso inglobato.
L’ossessione con cui oggi i gay aspirano a riconoscimenti giuridici è la prova più evidente di questa deriva. Così come lo è la banalizzazione e la spettacolarizzazione della propria cultura. Anche il linguaggio fa la sua parte: definire o definirsi “froci” è politicamente scorretto. Ma non sono pochi gli omosessuali che non ci stanno. Siamo con loro. Verrebbe voglia di gridare tutti insieme: «Ridateci i froci di un tempo!».