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Berlusconi, il mio più caro nemico: Annunziata, Giannini, Santoro e Serra? Che sorpresa

di Andrea Tempestini mercoledì 14 giugno 2023

3' di lettura

Silvio, il mio più caro nemico. Già, perché nella ridda di oltraggi a cadavere caldo ci sono delle “buone notizie”. C’è anche chi dopo averlo combattuto per tre decenni, pur marcando le distanze, gli concede l’onore delle armi. E lo fa in modo schietto, senza ipocrisia.

Nomi che sorprendono. Come quello di Lucia Annunziata. Sulla Stampa, riconosce a Berlusconi di aver «portato la politica italiana nel mondo nuovo, l’ha resa più simile a quella dei Paesi occidentali». Perché «le opinioni restano (e resteranno) radicalmente diverse, ma la realtà, a guardarla oggi, la si può descrivere con una sola parola: modernità». Già, il merito della modernità, Silvio tratteggiato come erede nostrano di Ronald Regan e Margaret Thatcher, figure immense del secolo scorso. Ad unire i tre, secondo Annunziata, la battaglia contro sindacati e patti sociali. Ovvero una forma di modernità. Su cui certo è lecito interrogarsi: «Ha avvelenato il sistema? O lo ha portato solo dove non poteva che arrivare? È la domanda che resta aperta» sull’eredità di Berlusconi, conclude Annunziata senza arrivare a sentenza.

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Il secondo nome è quello di Michele Santoro, il teletribuno, l’arcinemico tv. Nel giorno della morte, al processo postumo preferisce un’aneddotica che sconfina nell’affetto. I due istrioni, in fondo, si sono sempre ammirati. Santoro rievoca la battaglia rusticana del 2013 ad AnnoZero, il Cav che prima di sedersi ripulisce la poltrona per non condividere con Travaglio nemmeno il pulviscolo. «Durante uno stacco pubblicitario», racconta Santoro «mi fermò, mi tirò per la giacca e mi disse: Michele, ma come ci stiamo divertendo! L’empatia è questa». E ancora: «La tristezza non è solo un sentimento del popolo dei berlusconiani, la sento anche io che l’ho sempre contrastato». Giù il cappello.

Quindi Massimo Giannini, il direttore de La Stampa che ieri proponeva in edicola un quotidiano posato, i toni lontani anni luce da quelli infernali di Repubblica e Fatto Quotidiano. Ma soprattutto Giannini rivela l’umana simpatia che provava per il personaggio. Non è poco. Ricorda di averlo osteggiato per vent’anni e «per questo, dal 2015 in poi, mai avrei immaginato di poter ricevere due inviti a Palazzo Grazioli. Mai avrei pensato di poter trascorrere alcune ore insieme a lui, a scherzare e a ironizzare sul passato». «Mai avrei sognato di ringraziarlo, dopo un’altra chiacchierata, mentre mi salutava con una pacca sulla spalla». «Più simpatico e più empatico di lui, nessuno mai», confessa Giannini. Poi certo, «comincia la politica. E il giudizio cambia».

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Infine Michele Serra, il più tormentato, perché fatica a riconoscere meriti a Berlusconi. E considerata la tenacia della sua trentennale critica forse è meglio così. Ma in una sorta di processo psicanalitico, su Repubblica, riconosce i suoi, di demeriti. Scrive dei primi incontri col Cav in via Rovani, sede Fininvest, «noi giornalisti ancora vestiti molto casual, anni Settanta, “loro” tutti in uniforme aziendale, abito blu e cravatta, un esercito in marcia». Ecco, «ci avessero detto, nel 1980, che quelle adunate sulla moquette erano il preludio di una nuova egemonia culturale (...) non ci avremmo mai creduto. Non avevamo capito niente», ammette. Illuminante la chiusa: «Io resto convinto, quarant’anni dopo, che il cinema d’essai fosse molto meglio di Dallas (...). Ma evidentemente sono riuscito a spiegarlo solo a me stesso», conclude Michele Serra, mettendo - finalmente - a fuoco con poche parole la ragione per cui contro Silvio hanno quasi sempre perso. 

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