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Silvio Berlusconi, l'ultimo miracolo nella sua Milano

di Renato Farina giovedì 15 giugno 2023

5' di lettura

Non poteva che avere il suo funerale a Milano. L'elicottero filma la Mercedes scura che silenziosa si muove da Arcore, entra a Milano 2 quindi attraversa le periferie. Dall'alto la metropoli non sembra Italia, ma è Berlusconia, ordinata, pulita, mai stata così, l'aria è stata purificata da raffiche di pioggia, e un vento leggero muove gli alberi, simmetricamente potati, dev'essere passato lui a sistemarli con il forbicione come faceva nei vialetti fioriti delle sue residenze. Il feretro di Silvio Berlusconi coronato di rose scivola nel traffico agile lungo viale Corsica, corso XXII Marzo, da est verso il centro, i vigili urbani sull’attenti ai semafori, qualcuno si accorge chi sta passando, tira fuori il fazzoletto. Ha votato o non ha votato Silvio, ma che importa, questa città si inchina al suo passaggio, i grattacieli curvi da lontano si piegano anche loro, le case con i balconi e le facciate liberty esibiscono gerani e ortensie, dal cielo si vedono anche i giardini di solito riservati ai ricchi, che sono la meraviglia nascosta di Milano e oggi si lasciano guardare dalle telecamere di Mediaset che ne distribuisce le immagini di luoghi riposti che fecero innamorare Stendhal.

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Sulla sinistra ecco improvviso il Palazzo di Giustizia: stavolta sembra che il suo grigiore torvo abbia ceduto a una sfumatura di dolcezza caramellata, uno sguardo e via, passa la scena di questo mondo cattivo, lo aspettano un chilometro più in là coloro che gli hanno voluto bene, nel posto giusto per uno nato e vissuto nella Milano operaia e poi in quella borghese, che qui non sono mai state nemiche, raccolte sotto le guglie di marmo roseo, e la Madonnina d’oro con le braccia aperte per invitare a lavorare.

NESSUN CATAFALCO

Non poteva che riposare qui, il Cavaliere, per l’oretta, oretta e mezza non di più di funerale ambrosiano, cantato con tersa solennità, senza sfrangiature melense, nessun sostegno sotto la bara, un piccolo tappeto per separarlo dal gelo marmoreo, ma nessun catafalco a nascondere la nudità della morte. La morte! Eppure se sta qui, impotente davanti all’Altissimo, è perché in quale altro luogo può esserci speranza di resurrezione? È sempre stato ospite inquieto e devoto nell’alveo del cattolicesimo, dove è stato cresciuto da mamma Rosella e papà Luigi. Si è interrogato a lungo, anche con chi scrive, sul mistero del nostro destino, ah poter sfondare questo scatolone avvitato, far saltare i chiodi, per una vita che non finisce. Ma certo che doveva sentir messa qui, l’ultima messa, Silvio Berlusconi, con l’arcivescovo Mario Delpini, dodici preti, e millecinquecento prescelti in abito scuro. Pochi sanno, ma Silvio lo sapeva, che questa chiesa costruita in fretta per secoli è l’unico esempio di gotico la cui facciata è più larga che alta, protesa ad aprire le braccia, e lui aveva imparato quest’arte milanese, non c’è basilica romana che tenga, né cattedrale umbra o toscana né barocco pugliese o siciliano, che regga il confronto con la sua divina umanità.


Chi scrive aveva cominciato un’ora prima a osservare e ad annotare stupidi appunti su chi va e chi viene, chi saluta e dove si siede. Conta lui, siamo qui tutti per Silvio. È lui che con il suo amore tiene insieme la composita famiglia e le persone qualsiasi, tutte diverse, incollate da uno strano affetto, che non è la comunanza di fede politica, o calcistica, o aziendale. Altro che legami di plastica come pensano gli idioti, ma un desiderio che non finisce mai, un’idea positiva del nostro stare al mondo, che non è un affannarsi inutile ma somiglia all’amicizia che si protende oltre il tempo. Ho visto, alcuni della vecchia schiera, non si sono mai seduti, sentinelle in piedi, ottantenni come Galliani, Dell’Utri, Confalonieri e Letta, elencandoli a caso. Intorno alle 14 e 15, tre quarti d’ora in anticipo sull’orario convenuto, la cappella del Duomo, che è meglio della Sistina, canta l’Ave Maria, gratia plena.

Non si devono prendere appunti sul dolore degli altri, quali segni siano visibili e quali invece nascosti dal pudore. Ma come non guardare stupiti l’invecchiamento improvviso di Marta Fascina, vent’anni perduti in tre giorni. E lo sguardo di Umberto Bossi in carrozzina, che si protende in un abbraccio e dice alcune cose essenziali al mio orecchio, ma decifro due volte le parole «il mio Amico». La maiuscola ci sta, guai a chi la toglie. I video dentro la cattedrale, senza sonoro, mostrano la deposizione della bara sul sagrato. Dentro le navate arriva un lieve eco del boato che subito invade le panche quando si spalanca la grande porta. L’inizio della messa ha la poesia dei versi del patriarca Ambrogio: «L’amore di Cristo trasforma la morte in aurora di vita eterna».

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AL RITMO DI PÉGUY

Omelia breve, di violenta sintesi poetica dell’umanità incontenibile di Silvio ora davanti a Dio, è una orazione da grande teatro della vita, l’arcivescovo Mario Delpini attinge ai ritmi dei testi ritmati di Charles Péguy. Un’ora, la benedizione. Ed ecco «Non morietur in aeternum»: la cappella del Duomo saluta con il latino della speranza il corpo di Silvio Berlusconi che se ne va. Non morirà in eterno? Intanto ci tocca dirgli addio. I corazzieri in divisa d’avorio precedono la bara di legno chiaro che si dirige inesorabilmente verso la tomba. L’applauso dalle navate si espande ed esplode nella piazza. Non finisce mai.
Oriana Fallaci descrisse questa frenesia di dolore al funerale del suo adorato Alexandros Panagulis. «Zi, zi, zi! Vive, vive, vive!».

MANCA GIÀ

Impossibile sottrarsi a questo impeto vibrante. Eppure. Manca già. Inutile fingere. A tutta questa gente, dentro e fuori la cattedrale, e a quelli che stanno davanti al televisore manca la sua voce viva, non registrata come quella che rimbalza di tivù in tivù, il posare la mano accanto al suo grande padiglione auricolare (ah sì, era vasto per ascoltare meglio) fingendo di trovare flaccido il battimani, tiepido l’entusiasmo, troppo poco frementi le bandiere del Milan e di Forza-Italia-che-siamo-tantissimi. Non solo la voce, manca lui, accidenti. Non si era mai visto un evento pubblico in cui la sua assenza silenziosa facesse sentire così forte la sua presenza, anzi la sua tremenda mancanza, il buco dentro tutti quelli che eravamo lì. Il «meno-male-che-Silvio-c’è» sembra una menzogna troppo grande per essere cantata, e lascia il posto a «un Presidente, c’è solo un Presideeente, un Presideeente». I suoi cari nella fila prossima a quel corpo dell’amato infilato nello scatolone, e i suoi cari di seconda, terza, centesima fila; dalle tribune centrali ai popolari, manzonianamente dal Manzanarre al Reno, non si danno pace. Ma ecco torna nebbioso come Milano d’inverno il canto: «Non morietur».

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