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Vittorio Feltri: "Auguri a Gianni Rivera, con lui ho segnato anche io"

di Vittorio Feltri giovedì 10 agosto 2023

6' di lettura

Io ho le prove che un grande calciatore, meglio se grandissimo, può mandare in gol chiunque, anche uno che tira di scherma. Questa è la storia che vi racconto: il campione è Gianni Rivera, e quello che tirava di scherma sono io. Era il 1964, e Rivera era già Rivera: a 21 anni, era al Milan da quattro e faceva decine di gol a stagione, aveva già vinto uno scudetto e una Coppa dei Campioni. Caso volle che avessimo la stessa età, e venimmo chiamati per il servizio militare, al quale, stella o no, neppure lui poteva sfuggire. È accaduto anche al grande Elvis Presley e al meno grande Jovanotti. La fortuna fu che eravamo non solo coscritti, ma anche entrambi degli sportivi, lui «un pochino» di più; io ero iscritto alla Federazione italiana della scherma, e quindi venimmo mandati entrambi al Centro addestramento reclute di Orvieto, la caserma dove venivano ammucchiati gli sportivi. È lì che ci siamo conosciuti.

Rivera, in mimetica, era un giovane come tutti gli altri, una recluta tra le altre reclute, e a nessuno venne mai in mente di trattarlo con i guanti di velluto. Lui, come tutti noi, si adeguò al clima spartano e di prepotenze della vita da soldati in tempo di pace, tipico del militarismo degli anni Sessanta: la guerra era finita da meno di vent’anni e l’Italia cavalcava il miracolo economico, cercando di dimenticare i problemi del Paese, lontani dall’essere risolti.

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DODICI IN CAMERATA

In camerata dormivamo in dodici, Rivera era guardato con ammirazione e rispetto, ma lui, titolare fisso nel Milan, nei nostri confronti si comportava con modestia, da «dodicesimo»: fra noi regnavano quei sentimenti di amicizia e confidenza che si instaurano o in galera o in caserma, era il tempo in cui i rapporti veri rendevano sopportabile un ambiente per niente familiare. A questo proposito, vorrei distruggere una leggenda negativa che lo ha sempre perseguitato: Gianni non era un ragazzo per niente tirchio.

Spesso, la sera, visto che a nessuno era permesso di uscire dalla caserma e il rancio faceva piuttosto schifo, ordinava dei polli arrosto, li faceva portare in camerata, e li divoravamo tutti insieme. Rispetto a noi, che eravamo perlopiù senza un quattrino, era un signore, era un gigante del calcio e guadagnava molto: ogni volta pagava allegramente tutto lui, di buon grado. Alcune sere, quindi, le si trascorreva mangiando pollo, ma in altre giocavamo a calcio: era il CAR degli atleti, i giocatori erano tanti, pieni di Gianni Rivera è nato ad Alessandria il 18 agosto 1943 e la prossima settimana farà cifra tonda: 80 anni. L’ex fuoriclasse del Milan e della Nazionale - in rossonero ha giocato 501 partite segnando 122 reti, mentre in azzurro vanta 60 presenze con 14 gol - è pronto a tornare nel mondo del calcio e sogna di diventare allenatore (ha preso il tesserino a Coverciano tre anni energia da sfogare, così improvvisavamo delle partite.

C’era Vittorio Carioli, bergamasco come me, che giocava nell’Atalanta, era bravissimo ma nella vita fu sfortunato, morì di una malattia tremenda. Mi ricordo anche di Alberto Spelta, del Varese, un fuoriclasse. Quando si organizzavano queste partite mancava sempre qualcuno per fare i ventidue, perciò a volte venivo reclutato anche io: Rivera giocava con leggerezza ma senza supponenza, mi passava la palla come se io fossi un giocatore «normale» e non uno schermidore che si trovava in mezzo a un campo di calcio, e la passava in modo meraviglioso, mi dava delle palle talmente facili da farmi sembrare un calciatore vero.

Ricordo che feci perfino due gol: Rivera guardava e toccava il pallone, che passava senza che nessuno riuscisse a prenderlo e arrivava giusto sul mio piede. E a quel punto avevo solo da spingerlo in porta. Era un gran divertimento: se stai facendo il soldato e stai tutto il giorno chiuso in caserma, quando finalmente c’è una partita si esplode di gioia. I giocatori della caserma erano tutti professionisti, ma nessuno di loro aveva verso di me un atteggiamento di sufficienza, anzi, si divertivano, perché noialtri, quelli che erano lì per fare numero, eravamo dei chiodi. Dopo un paio di mesi, finito l’addestramento, fui spedito al ministero, a non fare un cavolo; e tutti loro tornarono nelle rispettive squadre.

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A 15 ANNI IN SERIE A

Gianni Rivera è nato numero 10, ed è stato molto precoce, ha cominciato a giocare in Serie A a 15 anni, nell’Alessandria, che era una squadra abbastanza importante. Mostrò subito un talento straordinario, si districava di destro e di sinistro con la stessa facilità ed era un mostro di bravura quanto a visione di gioco e nella distribuzione dei passaggi, in particolare da centrocampo in su. Fu logico, quindi, che l’anno successivo, nel 1960, finisse in una grande squadra: fu preso dal Milan e la sua carriera decollò. Rimase in rossonero 19 anni, fino all’addio. Esordì subito nelle Nazionali giovanili e due anni dopo approdò in Nazionale A, dove segnò 60 gol e rimase inamovibile per 12 anni (a parte la discussa staffetta con Mazzola, ai Mondiali nel 1970, in cui comunque segnò il gol del 4-3 nella leggendaria semifinale contro la Germania Ovest, passata alla storia come «la partita del secolo»).

Il suo palmarès lo pone fra i calciatori più grandi di ogni tempo: tre scudetti, due coppe dei Campioni, un Campionato europeo nel 1968, vicecampione del mondo nel 1970, 128 reti e zero espulsioni in Serie A. Rivera smise di giocare nel 1979, fu vicepresidente del Milan fino al 1986, anno in cui la società venne acquisita da Silvio Berlusconi, che non lo confermò perché lo considerava un contestatore, e Berlusconi dei contestatori si libera in fretta. L’anno dopo Rivera scelse di correre per diventare parlamentare. Io all’epoca lavoravo al «Corriere della Sera», e un giorno ricevetti una telefonata da Padre Eligio, un frate che aveva la funzione di consigliere spirituale del Milan.

Padre Eligio era molto amico di Rivera, aveva fondato il primo «telefono amico» e la prima comunità di recupero per tossicodipendenti, sulla quale, inviato dal giornale, scrissi un reportage. Cominciò allora la nostra amicizia, e in quella telefonata Padre Eligio mi chiese di aiutare Rivera, che era stato un suo fedele. Ci trovammo in un ristorante e stabilimmo il da farsi. E io scrissi qualche articolo in cui descrivevo con favore l’ipotesi che Rivera diventasse parlamentare.
Quando infine venne eletto nelle file della Democrazia Cristiana, mi ringraziò. Dopo  molti anni, nel 2015, scrisse un bellissimo libro sulla sua vita: quando il libro venne presentato alla trasmissione televisiva «Domenica In», venni intervistato, come testimonial. Mi raccontarono poi che Rivera, ascoltando le mie parole di ammirazione, di rispetto e i racconti sulla nostra vita e sulla sua generosità quando eravamo chiusi nella caserma di Orvieto, si sia commosso.

IL GOL AI SUPPLEMENTARI

Oggi di Gianni Rivera non si parla quasi più, ma nella memoria dei milanisti e degli italiani lui e quel suo incredibile gol ai supplementari, nei Mondiali del ’70, rimangono un simbolo della capacità italiana di reagire, di sovvertire i pronostici: un ragazzo di 1,76 per 70 chili che entra in area, si guarda in giro, tira, il portiere esce dal video e la palla entra in porta. Gianni Rivera è stato un eroe gentile: era detto «golden boy», ragazzo d’oro, ma Gianni Brera, che pure ammirandolo gli rimproverava di essere poco virile in campo, ne colse il suo tratto più caratteristico chiamandolo «abatino»: perché sembrava giocare in punta di piedi, leggero, mai falloso, mai irruento. Danzava con il pallone, quasi non calpestava il prato del campo di gioco. In più, parlava poco, con l’erre moscia, e i suoi modi sono sempre stati contenuti ed eleganti. Solo Roberto Baggio può rivaleggiare con lui quanto a purezza della classe.

Ma il tempo cancella la fama, le prodezze, cancella tutto quello che hai fatto. E questo, a me almeno, provoca una profonda amarezza, perché il calcio è una metafora della vita, e per gli italiani lo è ancora di più: è una specie di simulazione della guerra, una guerra disarmata che appassiona, scalda gli animi, e certe imprese non si dimenticano mai. Oggi sono passati più di 50 anni e l’oblio di quei tempi, diciamolo, eroici, è fatale. Ma noi che siamo appassionati di calcio e proviamo ancora un vago orgoglio per la nostra nazione, sia pure stemperato dai pasticci europei, continuiamo a considerare Rivera come un leggendario, epico esempio. 

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