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Michael Walzer, la sentenza: "Putin nemico degli Usa, nemmeno Trump può aiutarlo"

di Francesco Carella martedì 22 agosto 2023

4' di lettura

«La guerra in Ucraina non sarà il convitato di pietra della prossima campagna presidenziale americana». Ne è convinto il filosofo Michael Walzer, cattedra a Princeton, maestro del pensiero liberal e teorico della “guerra giusta”. Firma prestigiosa del trimestrale Dissent, rivista di culto dei progressisti americani, oltreché commentatore di politica internazionale per New Republic. Dice il professore: «Credo che gli avvenimenti di Kiev peseranno in modo marginale nella battaglia per la conquista della Casa Bianca. Tutti gli osservatori attenti sanno che i Repubblicani sono profondamente divisi sul tema della guerra, mentre un numero non irrilevante si dichiara d’accordo con la politica seguita fin qui da Joe Biden. Se il prossimo presidente fosse repubblicano non cambierebbe un granché».

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Forse lei sta trascurando l’ipotesi che a Washington nel 2024 possa ritornare Donald Trump, nonostante i suoi tanti guai giudiziari. A quel punto, altro che continuità con l’Amministrazione Biden. Si aprirebbe una nuova fase con Vladimir Putin interlocutore privilegiato.
«Se Trump dovesse essere rieletto, la prima cosa che vorrebbe fare sarà quella di riaprire i rapporti con Vladimir Putin rivoluzionando radicalmente la politica degli Stati Uniti sull’Ucraina. Penso, però, che si renderà conto piuttosto velocemente che si tratterà di un’impresa difficile se non addirittura impossibile».

Che cosa glielo fa credere?
«Gli Stati Uniti sono una grande democrazia. Il tycoon dovrebbe avere la forza per affrontare e avere la meglio su una robusta opposizione che arriverebbe dallo “Stato profondo”, vale a dire dall’establishment militare, dai servizi di intelligence e dall’insieme dei poteri ancorati storicamente all’Occidente e caratterizzati da un’antica diffidenza nei confronti di Mosca. Comunque, spero proprio che non si verifichi una simile eventualità. Anche perché la situazione in Ucraina si complica via via che il tempo passa».

A volte si ha la sensazione che gli Usa non abbiano piena consapevolezza su quello che effettivamente stia accadendo in quella parte di Europa.
«Penso che le cose stiano diversamente. Joe Biden ha avuto fin dall’inizio dell’invasione voluta da Mosca un solo obiettivo ovvero quello di evitare di giungere a un conflitto diretto fra le forze della Nato e l’esercito russo. Strategia condivisa all’unanimità dai Paesi membri. Alla Casa Bianca è alta la consapevolezza circa i pericoli che il focolaio ucraino rappresenta per la sicurezza internazionale».

È una tale preoccupazione che porta ad avere una certa prudenza nell’armare Zelensky così come il leader ucraino continua a richiedere?
«Direi di sì, anche se bisogna realisticamente riconoscere che il rifiuto di fornire armi più sofisticate rende difficile la situazione sul campo per Kiev».

In molti si chiedono che cosa accadrebbe qualora un missile russo colpisse accidentalmente il territorio di un Paese della Nato.
«Provo ad immaginare, dacché la guerra è iniziata, che cosa potrebbe accadere qualora un simile incidente dovesse avvenire, ma non riesco a vedere altro che una fase in cui i protagonisti si limiterebbero ad alzare i toni con accenti anche aspri. Dopodiché tutti concorderebbero, diplomaticamente, sul fatto che si sia trattato davvero di un incidente non voluto».

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Resta il fatto che in Russia, secondo calcoli effettuati da personale esperto, vi sono al momento qualcosa come ottomila testate atomiche. Lei esclude la possibilità che Mosca possa ricorrervi nel caso, anche se assai improbabile, di una sconfitta sul campo?
«Sono portato ad escluderlo, se accendo i fari della memoria. Infatti, occorre ricordare che quelle testate sono parte integrante dell’arsenale militare russo da moltissimi anni. Erano lì sia durante la Guerra fredda che nel corso delle varie guerre calde del Novecento, dalla Corea al Vietnam, dalla crisi di Cuba ai conflitti in Medio Oriente, per richiamare solo alcuni precedenti».

Vladimir Putin, però, minaccia di usare le armi nucleari tattiche per indurre l’Occidente a rivedere gli impegni presi fino a questo momento in Ucraina.
«Io non sono un esperto militare e, pertanto, non ho sufficienti informazioni per giudicare i rischi che ci attendono. Da studioso di politica osservo che finora gli scenari di cui parla il leader del Cremlino non si sono verificati. Il che significa che la deterrenza messa in campo dai Paesi della Nato sembra risultare efficace».

Allo stato delle cose, quale potrebbe essere la via da percorrere per raggiungere una soluzione diplomatica del conflitto?
«Una strada veloce per giungere a un cessate il fuoco è quella che storicamente viene chiamata “la via di Monaco”, sostenuta da non poche persone sia di destra che di sinistra, e che in termini pratici significa abbandonare Kiev al proprio destino. Sono convinto che, in tal caso, si commetterebbe un grave errore. Così come nel ’38, con gli accordi di Monaco, di fatto si favorirono i piani espansionistici di Adolf Hitler, oggi si darebbe partita vinta a Vladimir Putin e alla sua politica d’invasione di uno Stato sovrano».

Che fare, quindi?
«A mio avviso, ogni decisione per raggiungere la pace deve essere presa dagli ucraini, supponendo che sappiano meglio di chiunque altro fino a quando combattere e quando dare inizio ai negoziati. Del resto, è la posizione, giusta, tenuta fin qui dall'Occidente».

Un’ultima domanda. Quali sono gli obiettivi della Cina?
«Le rispondo con sincerità. Non ne ho la più pallida idea. La Cina è un mistero. Non posso credere che i cinesi non abbiano contezza dei pericoli che un conflitto nel cuore dell’Europa possa far correre al mondo. La speranza è che possano e vogliano esercitare un’azione frenante nei confronti di Mosca, ma potrebbero, però, essere interessati a un ridimensionamento della forza dell’Occidente in perfetta sintonia con gli obiettivi di Putin. L’unica certezza è che una guerra allargata confliggerebbe con gli interessi economici di Pechino. La qual cosa accende una flebile speranza».

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