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Vannacci? No, il vero militare omofobo era Che Guevara

di Spartaco Pupo mercoledì 23 agosto 2023

2' di lettura

Non la prenderanno mica tanto bene quelli che crocifiggono Vannacci quando sapranno – a proposito di militari – che uno molto più famoso dell’ex comandante della Folgore, agli omosessuali dedicò ben più di un trafiletto irriverente e politicamente scorretto. Pochi sanno che Ernesto Che Guevara, prima di diventare il mito immortalato sulle magliette dei novelli rivoluzionari della sinistra, fu uno dei più spregevoli e intolleranti omofobi della storia. In un opuscolo del 1965 dal titolo “Il socialismo e l’uomo a Cuba”, considerato il suo testamento politico, il comandante Guevara sosteneva che chiunque si discostasse dall’“uomo nuovo” comunista dovesse ritenersi un “controrivoluzionario”, ad iniziare dai “pervertiti sessuali”, come li chiamava lui, cioè i maschi con tendenze omosessuali che erano tra i principali simboli della “decadenza borghese”. Il vero “hombre nuevo”, per Guevara, non era il “maricón”, che vuol dire “finocchio”, “frocio”, ma il maschio vigoroso, eterosessuale e possente. Esattamente il “macho” contro cui si scagliano i fustigatori di Vannacci.

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In quello stesso anno anche Fidel Castro rilasciò un’intervista per dirsi totalmente d’accordo con le idee omofobe di Guevara. L’omosessualità, dichiarò il dittatore cubano, è una “deviazione” che “si scontra con il concetto di ciò che per noi deve essere un militante comunista”. Pensieri e parole che stonano non poco con la narrazione sessantottina di Cuba come paradiso di uguaglianza e libertà! I potenti omofobi cubani non si fermarono alle parole. Passarono subito ai fatti. Lo stesso Fidel nominò Guevara “procuratore militare” affinché avviasse il processo di eliminazione fisica dei “nemici della rivoluzione”, un incarico a cui il Che si dedicò con grande dedizione prima di passarlo a Raul Castro, fratello di Fidel, cui si deve l’invenzione dell’Unità Militare per l’Aiuto alla Produzione, dedita alla persecuzione dei gay. Non solo, Guevara fu tra gli ideatori del primo campo di concentramento cubano, inaugurato a Guanahacabibes, nel 1960, dove, come ricorda Álvaro Vargas Llosa ne “Il mito Che Guevara e il futuro della libertà” (2007), vennero internati, condannati ai lavori forzati e uccisi migliaia di omosessuali insieme a testimoni di Geova, preti cattolici, afrocubani e chiunque fosse ritenuto colpevole di “condotta antisociale”.

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A proposito di odio, sempre Guevara, nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’Onu, nel dicembre 1964, pubblicato in pieno 1968 da Feltrinelli in “Le scelte di una vera rivoluzione”, disse testualmente: “Dobbiamo ripetere qui una verità che abbiamo sempre detto davanti a tutto il mondo: fucilazioni; sì, abbiamo fucilato; fuciliamo e continueremo a fucilare finché sarà necessario. La nostra lotta è una lotta a morte”. E nei suoi scritti di strategia militare, il comandante inneggiava all’“odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare le sue limitazioni naturali e lo converte in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”. Quelli che oggi a sinistra danno dell’odiatore a chiunque la pensi diversamente da loro, forse dovrebbero studiare di più e rimbrottare di meno, prima che qualcuno, nel tentativo di emularli, chieda al ministro di turno di vietare la vendita delle magliette con la faccia del Che. 

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