L’opposizione al governo non è in Parlamento. Schlein e Conte non sono in grado di giocare questa partita da soli, Elly e Giuseppe sono soltanto le pedine di altri soggetti che muovono i pezzi sulla scacchiera, preparano lo schema e suggeriscono le mosse.
Non c’è niente di invisibile, è tutto esposto: l’élite è anti-meloniana, detesta le forze popolari; la finanza è senza patria al punto che le banche nell’anno degli utili record (43 miliardi) quando si è trattato di dare un contributo straordinario al paese hanno fatto le barricate (con la sola eccezione di Intesa); i mandarinati della magistratura e dell’alta amministrazione sono irresponsabili, autoreferenziali, monolitici, ostili a Palazzo Chigi; l’università non è riformabile con un colpo di bacchetta, è una questione di apertura dei cervelli, ci vogliono trent’anni e un ricambio culturale che non c’è (quello che accade oggi è già tutto descritto nel libro “La chiusura della mente americana” di Allan Bloom).
Che resta? La Chiesa, certo, ma alla Cei è arrivato Matteo Zuppi e la linea “zuppista” dei vescovi si preoccupa più dell’otto per mille che della comunità dei cattolici presa d’assalto dalla religione woke. C’è altro? Il quarto e il quinto potere, la stampa, la televisione, il variopinto mondo dell’entertainment. Bastava leggere, ascoltare, vedere le note in cronaca sulla manifestazione del Pd – prime pagine, telegiornali, fino al talk finto-colto e alla satira – per capire che aria tira in redazione. Repubblica titolava “Una piazza contro Meloni”; la sorella Stampa dava già la svolta con “La piazza larga di Schlein: il Pd non sta da solo”. Non si tratta solo dei giornali del gruppo Gedi, ma di un clima generale che tradisce l’attesa per una svolta nel Pd, un rientro in pista, un colpo di genio (figuriamoci). L’intervista di Repubblica a Conte, qualche giorno fa, era il chiaro tentativo di tenere insieme la baracca del centrosinistra.
Elly ha mille tribune a disposizione (e il centrodestra in Rai non ha un solo programma di approfondimento di cultura giornalistica conservatrice), ma non sa come usarle e al limite si fa usare (in)consapevolmente. Con questo arsenale, non c’è nemmeno bisogno di citare il Pd, l’importante è demolire chi guida Palazzo Chigi e l’intendenza seguirà. È un gioco raffinato che fa sponda con le ramificazioni internazionali del club: i giornali progressisti all’estero scrivono contro Meloni (elenco lungo, ne cito solo quattro: Le Monde, Guardian, Economist, New York Times), le agenzie di stampa riprendono la “notizia” che poi compare sui monitor di giornali, radio e televisioni e... oplà, il gioco è fatto.
A questi giganti dell’informazione bisogna aggiungere i grandi magazzini delle notizie finanziarie, il gruppo Financial Times, Bloomberg e Reuters che leggono, frequentano e ascoltano fonti che fanno parte sempre dello stesso circo che la vittoria di Meloni ha preso in contropiede. I suggeritori di questo network nazionale e estero sono visibili, sono tra le fila dell’élite che spera, desidera e lavora per far cascare il governo, creare le condizioni del disastro. Finora non è andata benissimo. Contavano sul crollo dei mercati (è andata male), coltivavano le agenzie di rating (è andata male), sognavano un diktat americano (è andata male), ci hanno provato con la magistratura e la famiglia (è andata male). Non essendo credibile una leadership potente di Schlein e avendo già visto all’opera lo sfasciacarrozze Conte, devono sperare nel rovescio interno del governo, magari nell’intervento di una manina esterna. Dunque bisogna andare avanti con il logoramento sui media. Non finirà mai, non riescono a trovare l’utile idiota. ©