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Fabrizio Cicchitto: così la mafia fermò Mani Pulite al Sud

di Fabrizio Cicchitto* martedì 14 novembre 2023

4' di lettura

In stretta successione sono usciti il libro di Mori e De Donno La Verità sul dossier mafia appalti (Piemme) e le motivazioni della Cassazione che li ha assolti per non aver commesso il fatto sulla pretesa trattativa Stato-mafia. Sia dal libro di Mori e De Donno sia dalle deposizioni di Lucia Borsellino e dell’avvocato Trizzino alla Commissione antimafia emerge che, secondo la famiglia, i nemici veri di Borsellino erano nella procura di Palermo e non solo nella mafia corleonese, con possibili inquietanti interconnessioni fra i due ambienti. Su questo nodo Mario Mori, nel libro autobiografico Mario Mori, M.M. Nome in codice Unico, fa considerazioni assai inquietanti su quello che avvenne in quella maledetta giornata del 19 luglio 1992.

Ciò detto veniamo a questioni fondamentali che consentono una rilettura di due anni decisivi della storia italiana, il biennio ’92-’94. Una rilettura che riguarda tutta l’impostazione di Mani Pulite che causò una terribile forzatura giudiziaria e mediatica con sconvolgenti ed eversive conseguenze politiche. Il sistema di Tangentopoli, infatti, coinvolgeva tutto e tutti, tutti i partiti senza eccezione e tutti i grandi gruppi industriali, finanziari, editoriali privati e pubblici; ma Mani Pulite ha colpito Craxi, tutto il Psi, i partiti laici, il centrodestra Dc e ha salvato il Pds e la sinistra Dc.

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LA DIFFERENZA

Il libro di Mori e De Donno apre una altra grande questione rispetto alla quale finora non c’era stata alcuna attenzione significativa. C’è stata, infatti, una grande differenza fra quello che è avvenuto al centro nord e ciò che si è verificato in Sicilia. Al Nord Mani Pulite è penetrata come un coltello nel burro degli imprenditori, dei partiti, degli amministratori nazionali e locali. Così il pool dei pm ha potuto fare tutto ciò che ha voluto, utilizzando gli arresti per ottenere confessioni, dando una impostazione di parte al risvolto politico delle vicende processuali e mediatiche. Poi Mani Pulite è scesa a Roma e nel Sud, ma non ha mai passato lo Stretto di Messina.

Il libro di Mori e De Donno mette in evidenza che in Sicilia Mani Pulite non è mai arrivata, neanche col dossier mafia appalti costruito dal Ros. La possibilità di una estensione di Mani Pulite in Sicilia era molto pericolosa sia per la mafia, sia per l’establishment industriale, finanziario e per le cooperative rosse. Al nord De Benedetti e Romiti hanno potuto recitare una sorta di commedia dell’arte basata sulle ben note lettere-confessione- genuflessione nei confronti del pool dei pm che gli hanno consentito di riversare le colpe sulle concussioni perpetrate dai segretari politici e amministrativi dei partiti nei confronti del mondo industriale e finanziario.

Qualora però quella tematica fosse stata messa allo scoperto in Sicilia si sarebbe visto che il sistema di Tangentopoli nell’isola non era costituito soltanto dalle benemerite categorie a cui abbiamo fatto riferimento, ma che al tavolo era presente anche un convitato di pietra costituito dai boss mafiosi. Per bloccare tutto ciò, si è ricorso a ben due “depistaggi atipici”: il primo, quello più devastante, costituito dalle stragi di tipo libanese che hanno colpito Falcone e Borsellino con una metodologia del tutto diversa da quella solitamente seguita dalla mafia. A nostro avviso, in quel modo la mafia ha inviato due messaggi: il primo consisteva nell’ultimatum a bloccare i grandi processi e la realizzazione di procedure come il 41bis. Il secondo sottolineava che Mani Pulite non poteva passare lo Stretto anche sotto forma del procedimento mafia appalti apprestato con il dossier costituito dal Ros e su cui Borsellino aveva manifestato grande interesse.

L’altro depistaggio atipico è stato quello di mettere fuori gioco per circa 15 anni proprio coloro che avevano preparato il dossier mafia appalti, con il pretesto della inesistente trattativa Stato mafia, mettendo così a tacere quei rompiscatole dei carabinieri con processi interminabili e conseguenti richieste di condanne durissime, evitando che essi potessero testimoniare su tutto l’andamento reale della vicenda.

Da ciò deriva che: il procuratore Giammanco, invece di insistere su un filone investigativo per il quale aveva affidato le indagini proprio a Borsellino alle 7.30 del giorno del suo assassinio, tre giorni dopo chiese l’archiviazione, accettata dal Gip il 14 agosto, fra la disattenzione generale. Cosa naturale in un certo senso dovuta e obbligata, era che le indagini assegnate al magistrato ucciso, fossero proseguite da altri pm, come Di Pisa; invece, su tutto venne messa una pietra tombale. Giammanco fece questa operazione senza essere contestato, senza essere sentito dalla Procura di Caltanissetta, che peraltro non ascoltò neanche la famiglia Borsellino.

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IL CASO BORSELLINO

Vogliamo essere sinceri fino alla provocazione, Giammanco ha messo in atto quella archiviazione a favore di due entità di straordinaria potenza: la mafia e alcuni pezzi forti dell’establishment finanziario, imprenditoriale, editoriale e dei vertici delle cooperative rosse. In un quadro di quel tipo il successivo depistaggio del processo Borsellino per la strage di Via d’Amelio, è stato una sorta di conseguenza naturale: non ci si poteva inoltrare in indagini reali su una materia così scivolosa e compromettente. Così, grazie al questore La Barbera fu costruito il finto pentito Scarantino, un mafioso di mezza tacca che non aveva nulla a che fare con l’attentato, a cui tutti diedero retta con l’eccezione della Boccassini. Inoltre, per dare credibilità all’operazione, furono fatti confessare a Scarantino particolari della strage che potevano essere conosciuti solo da chi l’aveva fatta realmente. Adesso, dopo l’ultima definitiva sentenza della Cassazione con quelle motivazioni, Mori, De Donno e Subranni hanno riconquistato la parola. Credevano di averli messi a tacere con i processi e le trasmissioni su La7. Fortunatamente così non è stato.

*Presidente di ReL Riformismo e Libertà

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