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Spartaco Pupo: grazie ai cattivi maestri è nato l'odio per Israele

di Spartaco Pupo domenica 19 novembre 2023

3' di lettura

Sono sempre più lontani i tempi in cui la sinistra, nell’immediato dopoguerra, difendeva le ragioni di Israele fino ad esaltarne i kibbutz come modello ideale di socialismo. Un giovanissimo Toni Negri, nell’inseguire «una gentile fanciulla», andò a trascorre un anno in un kibbutz del Mapam per poi ricordare quell’esperienza come una delle «pratiche tanto elementari, quanto radicali di comunismo».
Non fu da meno il comunista (ebreo) Umberto Terracini, che nel 1948, dopo la nascita di Israele, riconobbe l’autenticità di un manifesto del Pci raffigurante una nave che fa rotta verso la Palestina, con cui si invitavano i militanti a raccogliere fondi a favore degli israeliani.

Un ventennio dopo, la sinistra già si lasciava sedurre dalla narrazione antisionista dei cattivi maestri del ’68, secondo la quale Israele da sempre agisce contro la vita dei civili in quella che è un’occupazione illegale del territorio palestinese. Da allora, intere generazioni di giovani sono state indottrinate alla visione di Israele come avamposto del colonialismo, del razzismo e dell’apartheid. Indicarli tutti questi cattivi maestri richiederebbe molto spazio, ma ricordarne alcuni tra i più influenti può aiutare a comprendere le profonde ragioni culturali delle agitazioni anti-israeliane di questi giorni.

Il primo è senz’altro Noam Chomsky, il più famoso dei residui intellettuali della New Left degli anni ’60, quando il filosofo e linguista statunitense si distinse come attivista contro la guerra del Vietnam e difensore del regime comunista di Pol Pot in Cambogia. Chomsky fu molto abile nell’utilizzare la tragedia dell’11 settembre per assurgere al ruolo di decano della sinistra accademica e intellettuale occidentale. Il giorno dopo gli attacchi terroristici di Al Qaeda a New York e Washington, egli dichiarò che il bilancio delle vittime americane era minore rispetto a quello dei morti causati nel Terzo Mondo dal «terrorismo molto più estremo» della politica estera degli Usa. In fondo era quanto andava sostenendo dal 1974, l’anno di Riflessioni sul Medioriente, in cui considerava inaccettabile lo Stato ebraico perché intrinsecamente razzista: i concetti di «purezza di nazione e razza» insiti nelle istituzioni ebraiche – diceva – sono incompatibili con il pieno riconoscimento dei diritti umani fondamentali.

E non ha mai cambiato idea Chomsky, se è vero che nel 2003, in Power and Terror, riteneva illegale «praticamente tutto ciò che Israele fa», e nel 2009 ancora considerava «disgustosamente legittimo» che come «gli europei e i nordamericani si voltavano dall’altra parte mentre i nazisti attuavano l’Olocausto, così gli arabi trovano il modo di non far nulla mentre gli israeliani massacrano i bambini palestinesi».

Questa invettiva intellettuale contro Israele ha contribuito a strutturare non poco la politica accademica della sinistra negli ultimi quarant’anni. Per fare qualche esempio, il filosofo marxista sloveno Slavoj Žižek partì proprio dal paragone con il nazismo per affermare, in un saggio del 2012, che la descrizione della Striscia di Gaza come «il più grande campo di concentramento al mondo» si avvicina «pericolosamente alla verità».

Del medesimo tenore appaiono le riflessioni di quanti si sono sin qui sforzati di minimizzare l’influenza dell’islam radicale ed esaltare la natura islamofobica dei media occidentali. Edward W. Said, il più rappresentativo esponente dei Postcolonial Studies, in Orientalism (1978) stabilì che qualsiasi prospettiva occidentale sull’Oriente, sull’islam o sul mondo arabo dovesse considerarsi automaticamente razzista, colonialista e intellettualmente fallimentare. Con questa tesi Said fornì il quadro rivoluzionario di riferimento per ogni credibile approccio progressista al Medioriente.

E se un Premio Nobel della letteratura come José Saramago, un “comunista libertario”, come lui stesso amava presentarsi, vedeva nella moderna guerra di Israele contro i palestinesi l’espressione viva della sete di sangue biblica e della fedeltà ebraica a una lunga tradizione di vendette, Gilles Deleuze, tra i filosofi sessantottini più affascinanti, in un testo del 1983, a un annodi distanza dalle stragi di Sabra e Shatila, indicò nella “visione religiosa” di Israele un nuovo tipo di colonialismo in grado di conciliare l’espulsione geografica con il genocidio. Se questi sono i maestri, poco meravigliano le odierne esternazioni degli allievi.

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