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I simboli della Patria che imbarazzano la sinistra

di Emanuele Ricucci domenica 26 novembre 2023

3' di lettura

La Bandiera, lo Stemma e l’Inno sono i simboli di un Paese e di un popolo che si fa identità collettiva». Non una società di individualità affiancate, unite dal bisogno, ma una comunità stretta da un nesso di civiltà, da una lingua e una storia, da un confine, da metanarrazioni che nutrono la sacralità di una gente, riti e tradizioni: singolarità compiute e non aggregazioni indistinte, il cui significato è tradotto nei simboli. Ecco il cuore di Patria. Simboli d’Italia, fresco di stampa per Ferrogallico, scritto da Umberto Maiorca e disegnato da Giuseppe Botte. Un mix di alto potenziale divulgativo fuso alla potenza dell’arte del disegno che inframezza il racconto; affermazione e rilettura delle colonne portanti dell’identità nazionale, non una bieca contrapposizione, che pone indirettamente una riflessione ardente nell’Italia costretta a ingoiare a forza dosi tossiche di politicamente corretto. Tra le pagine atti d’amore, una dedica alla vita che non si esaurisce nello spazio della individualità ma che compie una missione più alta, come quella di Luigi Zamboni, che già nel 1794, quando l’unità nazionale era un miraggio, scriveva «Da secoli divisi, noi manchiamo d’un’insegna che dall’Alpi al Quarnero ci dica figli di una istessa madre; che raccolga gli affetti tutti degli Italiani delle varie provincie. È necessario un vessillo nazionale, tra un popolo che risorge a libertà», tra i primi a guardare oltre e a morire per il tricolore, fu ucciso in cella.

VIAGGIO NEL TEMPO
La coccarda verde, bianca e rossa che indossava nell’insurrezione contro lo Stato Pontificio è conservata ancora oggi a Bologna; o come quella di Giuseppe Compagnoni che il 7 gennaio del 1797 testimonia il battesimo della nostra bandiera nazionale: «Chiedo che si renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco e Rosso». L’assemblea approva tra grida di gioia: “Viva l’Italia”, “Viva il Tricolore”. Sangue giovane con cui dovremmo comunicarci per elevare la misera condizione di cittadini del mondo, come numeri persi nella pangea e nell’indistinzione dei nostri giorni. Così, nel 1801, il drappello di soldati ormai sconfitti, comandati da Teodoro Lecchi, che brucia il tricolore affinché non cada in mano al nemico, e ne ingoia le ceneri con un bicchiere di vino, così anche Cristina Trivulzio di Belgioioso, con la coccarda tricolore al petto che guida, nel marzo 1848, i 300 volontari che si imbarcano alla volta di Genova per fare la guerra in Lombardia.

Sono cuciti da mani femminili i vessilli che appaiono in battaglia con i volontari. E ancora, tra le pagine dense, quell’Italia liberamente “desta” che il 10 settembre 1847 trova compimento nelle parole del nostro inno, canto d’amore di chi esulta e di chi muore, poesia della rivolta all’imposizione, di consapevolezza della grandezza di una storia millenaria che non può essere taciuta e che, anzi, sia viva eredità per ogni generazione, grazie a Goffredo Mameli e Michele Novaro. Il primo atto fondativo della Patria, una certificazione di unità che vive nel Risorgimento ma esplode nella Grande Guerra, in un amore di carne che diventa sacralità nel fango della trincea: il contadino calabrese e il muratore piemontese uniti, a combattere, morire e vincere per la stessa madre, l’Italia, alla carica avendo innanzi la patria come la Madonna a cui donare più della vita. Tra questi, gli esempi di Nazario Sauro e la sua lettera al figlio Nino, o di Enrico Toti, al fronte come volontario, senza una gamba, pronto a eternarsi, “nun muoro io!”, lanciando la stampella che lo sorreggeva al nemico, così come la storia di quel soldato, rimasto ignoto, che magnifica e racchiude il martirio di migliaia di uomini, e di una donna Maria Bergamas, che diventa madre di ogni soldato italiano, chiamata a scegliere un feretro con i resti di un fante senza nome come identificazione del sacrificio nazionale, in un “rito” ben descritto tra le pagine.

Così le storie di tanti altri eroi che non si arresero, ammantando di onori questa terra. Uomini e donne, ricchi e poveri, giovani e meno giovani: oltre ogni mistificazione contemporanea, la patria parla un linguaggio universale, impartendo una sonora lezione a chi professa la vergogna dell’appartenenza a una radice storica come missione ideologica edificante il progresso e la maturità civile: quell’imbarazzo, di un certo mondo politico, di essere Italia oltre la religione laica della Resistenza, assurda pretesa di innaturale compressione di una storia millenaria. Non saranno assurde devianze ideologiche, né i monumenti della Grande Guerra invasi dal muschio o i tricolori maltrattati su qualche pennone a cancellare le gesta di chi ha fatto l’Italia. 

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