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Mario Sechi: Una guerra tira l'altra, droni sulle navi Usa

di Mario Sechi lunedì 4 dicembre 2023

4' di lettura

A che punto è la guerra? Il singolare non si può più usare, siamo di fronte a una concatenazione di conflitti che producono un effetto domino, notizie in apparenza lontane sono intrecciate. Fare questo mestiere significa provare a ricostruire lo scenario. I pezzi del Risiko si muovono rapidamente: Israele ha aperto una nuova fase della guerra contro Hamas a Sud di Gaza; i ribelli Houthi dello Yemen (sostenuti dall’Iran) hanno risposto lanciando un attacco via drone e missili nel Mar Rosso contro il cacciatorpediniere americano USS Carney e altre navi commerciali; sul conflitto in Ucraina il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ieri ha detto che «dobbiamo essere pronti anche alle cattive notizie, ma dobbiamo stare al fianco dell'Ucraina nella buona e nella cattiva sorte».

Che cosa sta succedendo? Una guerra tira l’altra e in questa moltiplicazione dei teatri c’è un’accelerazione: i nemici dell’Occidente stanno tastando il terreno per vedere quanto possono osare, fin dove si possono spingere, confidano nella “stanchezza” dell’Europa e degli Stati Uniti. Il punto è che tra Washington e Bruxelles si fatica a capire il carattere “esistenziale” di queste guerre, nessuna può essere persa, ma nello stesso tempo nessuna senza un cambio di approccio può essere vinta. Israele ha colto questo aspetto “esistenziale” del conflitto: riguarda non solo la sopravvivenza dello Stato, ma del suo popolo. L’obiettivo del genocidio è apparso chiaro nell’assalto di Hamas del 7 ottobre scorso, è uno spartiacque, segna un cambio di strategia. Chi pensava che la tregua dopo il primo scambio di ostaggi sarebbe diventata permanente, non ha capito che questa non è una delle tante guerre di Gaza, è un «noi o loro», uno scontro finale con Hamas.


L’Iran finora era rimasto alla finestra, gli ayatollah di Teheran ai tempi dell’eliminazione del generale Qassem Soleimani non uscivano di casa, terrorizzati dai missili cruise degli Stati Uniti, ma ieri è accaduto qualcosa di diverso: l’attacco alla nave da guerra USS Carney e a diverse altre navi commerciali nel Mar Rosso con droni e missili balistici è un’escalation, la rivendicazione degli Houthi è una sfida, la conferma del Pentagono è una spia che lampeggia nella sala comando delle democrazie. La via del Mar Rosso è vitale per il commercio mondiale, colpire il traffico marittimo nello Stretto di Bab el-Mandeb significa chiudere l’accesso al Canale di Suez. A chi dice che tutto questo non ci interessa, che è lontano, che dobbiamo pensare ad altro, diamo qualche numero tratto da un report del centro studi Srm di Intesa San Paolo: il 12% del commercio mondiale transita nel Canale, il 30% del volume dei container del trasporto marittimo internazionale, a Suez passa quasi il 5% del greggio mondiale, il 10% dei prodotti petroliferi el'8% dei flussi marittimi di gas liquido. E l’Italia? Il 40% di tutto l’interscambio commerciale marittimo italiano pari a 82,8 miliardi di euro, ha come destinazione paesi raggiungibili solo attraverso il Canale di Suez. 

Mentre esplodeva il nuovo conflitto in Medio Oriente, la guerra in Ucraina è entrata in una zona grigia. I toni sicuri della vittoria di Kiev sono andati via via calando, fino all’ammissione che la controffensiva è sostanzialmente fallita. Da Washington sono cominciati ad arrivare segnali di insofferenza, le voci sull’autoritarismo di Zelensky da sussurro sono diventate critica aperta, anche sulla conduzione della guerra. Le cose sul campo di battaglia vanno male e l’Economist ha pubblicato una copertina che apre un altro problema esistenziale, stavolta per l’Europa intera e la sicurezza sul fianco orientale della Nato: «Putin sta vincendo?». Vincendo forse no, ma di sicuro non sta perdendo e sta rafforzando le postazioni militari in Ucraina, mentre la coalizione che sostiene Kiev non ha fornito la copertura aerea e la produzione di proiettili è insufficiente per sostenere una guerra combattuta con l’artiglieria. Zelensky ora ammette che «la guerra è entrata in una nuova fase», la fronda interna e le critiche crescono, l'ex presidente Petro Poroshenko è stato bloccato alla frontiera venerdì scorso, secondo i servizi di sicurezza ucraini voleva incontrare il primo ministro ungherese Viktor Orban. Volano i missili e gli stracci. Altro elemento di tensione, le critiche del sindaco di Kiev, Vitaly Klitschko, che non fa giri di parole per dire che Zelensky prima o poi dovrà lasciare la leadership: «Il presidente oggi ha una funzione importante e dobbiamo sostenerlo fino alla fine della guerra. Ma alla fine di questa guerra ogni politico pagherà per i suoi successi o i suoi fallimenti». Riepilogo, è un minimo programma di impegni per il 2024: dobbiamo sostenere Israele contro Hamas, l’Ucraina non può perdere la guerra, il Mar Rosso deve essere sicuro. Questa è l’agenda del governo italiano, del premier, dei partner internazionali, della Nato e dell’Unione europea. Non siamo soli nell’universo, anche se penso che qualche volta, osservando lo scarso livello del dibattito pubblico in Italia, Giorgia Meloni si senta sola. 

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