A tre anni di distanza dallo scoppio dell’emergenza pandemica iniziano finalmente ad arrivare segnali di rallentamento delle pressioni inflazionistiche. Nel mese di novembre l’indice europeo sui prezzi al consumo ha registrato una discesa su base nominale al 2,4% sebbene su base core, ossia depurato dalle componenti volatili, alimentari ed energetiche, si sia attestato al 3,6%. Un raffreddamento, quello sul fronte dei prezzi, che però è stato reso possibile solo attraverso una restrizione monetaria da parte della Bce, che ha di fatto prodotto il blocco dell’attività industriale. Ai mercati, però, tale dinamica non sembra interessare. Anzi, proprio il processo disinflazionistico in corso, unito al rallentamento dell’economia, hanno di fatto alimentato le aspettative di un taglio dei tassi di 100 punti base entro il mese di ottobre del prossimo anno.
In quest’ottica si spiega il balzo degli indici azionarie il raffreddamento dei rendimenti obbligazionari delle ultime settimane. A dare fiducia al mercato giunge, in particolare, l’aspettativa che la carenza strutturale di personale impedirà i licenziamenti, dando sostegno al reddito disponibile. Insomma, il migliore degli scenari possibili. L’elemento preoccupante è che ad abbassare la guardia siano i policymakers europei. Il braccio di ferro che contrappone oggil’asse Italia-Francia alla Germania sulla riforma del Patto di Stabilità è infatti la riprova di quanto il Vecchio Continente abbia fatto poco tesoro dell’esperienza passata (crisi energetica e delle materie prime, spaccatura delle supply chain, ecc).
Ai fautori del ritorno all’austerity sembra infatti sfuggire come lo scoppio della pandemia prima, l’invasione russa dell’Ucraina e ora l’escalation militare in Medio Oriente, sancendo la fine della globalizzazione, abbia messo nero su bianco l’estrema vulnerabilità dell’intero Vecchio Continente e conseguentemente l’urgenza di dotarsi di politiche volte a perseguire l’autonomia strategica. Che però, viene perseguita a parole ma non nei fatti. Facciamo un passo indietro. Il raggiungimento di una maggiore autosufficienza dall’estero riguarda in particolare tre ambiti: la transizione energetica, la competitività dell’industria e la spesa militare. Sul fronte delle politiche climatiche, la stessa Commissione stima che saranno necessari investimenti per oltre 1000 miliardi di euro al fine di centrare i target climatici fissati al 2030 pari a un costo stimato su base annuale di circa il 2% del pil europeo.
Ma di fondi sufficienti a perseguire tale obiettivo non si vede neppure l’ombra. L’aspetto ancora più preoccupante è che, per come sono oggi impostate le politiche ambientali, la conflittualità tra i partner europei sia destinata ad aggravarsi fortemente. Per fare un esempio, l’entrata in vigore del regolamento del carbon border adjustment mechanism, se da un lato comporterà il forte incremento dei costi produttivi e di compliance per l’intera industria europea, dall’altro lato privilegerà quei Paesi che investiranno sul nucleare, come Francia e Svezia e che quindi potranno offrire alle imprese prezzi dell’energia a basso costo e a contenute emissioni di Co2. In quest’ottica sarebbe opportuno che il governo prenda in considerazione l’acquisto di impianti nucleari di terza generazione.
Un discorso simile va fatto anche per la competitività industriale.
Anelare a un’autonomia strategica richiede un settore industriale solido in grado di poter produrre beni per applicazioni sia civili che militari. Quello a cui stiamo assistendo finora, invece, è un progressivo processo di deindustrializzazione che i vari Governi europei provano a mitigare con sussidi all’energia implementati in ambito nazionale, senza alcun coordinamento comunitario in base ai singoli spazi in bilancio. I risultati sono evidenti: dallo scoppio della guerra in Ucraina, la produzione industriale tedesca registra una flessione del -5% a fronte del rialzo del +11% di quella cinese.
Dalla fine della Guerra Fredda l’Europa fa affidamento sulla Nato per la difesa comune attraverso la copertura finanziaria da parte di Washington. Che, però, in ragione del crescente spostamento degli interessi americani nel Pacifico potrebbe assistere a una forte riduzione. Le difficoltà sorte sull’approvvigionamento di munizioni per l’Ucraina non solo rappresentano un monito sulla vulnerabilità europea in ambito militare, ma rischiano di aggravarsi in caso di allargamento del conflitto in Medio Oriente. Lo stesso ministro della Difesa, Guido Crosetto ha recentemente ricordato come, con gli attuali trend di spesa, sarà difficile raggiungere l’impegno del 2% del Pil entro il 2028. In sostanza, se l’Europa intende sopravvivere, necessita di un forte incremento dei piani di investimento in un contesto di maggiore coordinamento tra i Paesi. Ma sarebbe altrettanto ingenuo pensare che tale obiettivo possa banalmente essere perseguito cambiando esclusivamente i parametri di indebitamento. I picchi toccati dai rendimenti obbligazionari nel mese di ottobre rappresentano infatti un campanello di allarme che non può essere sottovalutato. Le tensioni sul fronte inflazionistico sono infatti destinate a rimanere strutturali e torneranno a farsi sentire non appena l’economia europea uscirà dall’attuale stallo. Tornare a spendere indiscriminatamente nell’attuale contesto di frammentazione rischierebbe insomma di provocare una crisi del debito europea.
Che fare dunque? Una soluzione passa per conferire poteri nuovi alla Bce e metterla in condizione di effettuare operazioni di quantitative easing su specifici progetti volti a perseguire l’autonomia strategica. Così facendo Francoforte manterrebbe il controllo sui prezzi, creando però al tempo stesso le condizioni finanziarie per sostenere i cospicui investimenti necessari al perseguimento dell’autonomia strategica. Parallelamente Bruxelles dovrebbe dare il via a piani mirati di stampo protezionistico per evitare che i nuovi investimenti finiscano per favorire i Paesi concorrenti, Cina in primo luogo. Nuovi problemi richiedono nuove soluzioni.
*Fondatore di T -Commodity
Il bilancio delle devastanti inondazioni causate dalla tempesta che ha colpito il Texas centrale sale ad almeno 51 morti. Ventisette i dispersi.Il dato ufficiale fornito dalle autorità parla ancora di 43 vittime ed è probabile aumenti nella zona più colpita della contea di Kerr. Sempre le autorità sabato in una conferenza stampa hanno dichiarato che 15 delle vittime erano bambini. Il governatore Greg Abbott ha promesso che le squadre avrebbero lavorato 24 ore su 24 per soccorrere e recuperare le vittime. Ancora da ufficializzare il numero delle persone disperse, a parte 27 bambine che si trovavano in un campo estivo femminile.