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Daniele Capezzone e l'élite di Davos: complotti, lodi alla Cina e l'Occidente da incolpare

di Daniele Capezzone mercoledì 17 gennaio 2024

3' di lettura

In epoca di memoria cortissima, vale la pena di tenere bene a mente cosa accadde a Davos nel 2017, quando l’establishment tecno-progressista e tecno-liberal globale fu pressoché unanime nel riservare un’accoglienza trionfale al dittatore cinese Xi Jinping. Recuperate quelle foto, riguardate quei frammenti video: e rivedrete molti potenti occidentali della politica e dell’economia sbracciarsi in prima fila e spellarsi le mani per lasciare agli atti il proprio tributo a Xi come alternativa allo sgradito Donald Trump. Seguirono incredibili pezzi di quello che si potrebbe chiamare l’Inviato Unico, il Corrispondente Collettivo, per suffragare la tesi secondo cui il più ragionevole tra i due – cioè tra il tiranno cinese e il presidente della nazione più importante del mondo libero – fosse il primo e non il secondo.

Ecco, alla vigilia del ritorno di Donald Trump sulla scena, a Davos – quest’anno – l’aria è forse meno tronfia e più mesta del solito. Eppure non sono mancati tre ingredienti notevoli: l’uno prevedibilissimo, ormai un classico; gli altri due a loro modo inediti ma non per questo meno inquietanti. Il primo elemento, quello ormai rituale, è stata la presentazione del rapporto Oxfam sulle disuguaglianze. Il sottofondo è sempre lo stesso: se le differenze nel mondo aumentano, la colpa in fondo è dei paesi ricchi, dell’Occidente, mentre tende regolarmente a rimanere in ombra o comunque in secondo piano il ruolo delle dittature, la corruzione nei paesi in via di sviluppo. Insomma, la strada dell’autocolpevolizzazione dell’Occidente, dell’autofustigazione del nostro mondo, è sempre quella più battuta. Il secondo elemento notevole emerge da uno studio – da un “survey”, come si dice dalle parti di Davos – in cui i cosiddetti “specialisti di analisi dei rischi” del World Economic Forum hanno individuato i due fattori che nei prossimi due anni potrebbero condurre a una crisi globale. Di che si tratta?Della minaccia cinese? Del militarismo espansionista russo? Del terrorismo islamista? Del ruolo di avvelenamento del Medio Oriente svolto dall’Iran? No.

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Tenetevi forte: al primo posto ci sarebbe “l’extreme weather”, cioè gli eventi meteo estremi, e al secondo posto la “misinformation” e la “disinformation”, cioè la cattiva informazione e la disinformazione. E così nel primo caso si alimenta il tremendismo climatico come insuperabile giustificazione per le mitiche “transizioni” (anche travolgendo considerazioni economiche e occupazionali), mentre nel secondo si pongono le basi – in un anno elettorale in mezzo mondo – per squalificare preventivamente le scelte democratiche dei cittadini. Se dunque gli elettori “voteranno male”, sarà stata colpa della disinformazione, di un qualche inganno populista, di un trucco trumpiano. Esagero? Temo di no. La terza cosa da rimarcare è stata una discussione, con l’ineffabile Tedros Ghebreyesus, sul rischio di un oscuro “Disease X”, insomma di una malattia misteriosa, di un futuro virus, di una pandemia prossima ventura. Anche un bambino capisce che diventerà dura accusare chicchessia di complottismo dinanzi a una prospettazione così inquietante e generica. A maggior ragione se l’officiante è lo stesso direttore dell’Oms (l’agenzia Onu specializzata per le questioni sanitarie) che uscì malissimo da tutta la vicenda Covid: per i suoi ritardi, per essersi schiacciato a lungo sulla versione di comodo di Pechino, per linee-guida discutibili e contestatissime, per il suo atteggiamento politicamente ambiguo e invariabilmente filocinese.

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Rileggere oggi le prime prese di posizione dell’Or-ganizzazione, tra sottovalutazioni e mano costantemente tesa a Pechino, lungo tutto il mese di gennaio 2020, fa male al cuore. Ecco, mettete insieme tutte queste cose, unite i puntini, e – alla fine della fiera – diventa surreale che la formula chiave dell’evento di Davos di quest’anno sia stata “rebuilding trust”. Anche qui nulla di nuovo: nel 2022 la parola d’ordine era stata “restoring trust”, e nel 2021 si parlò di un “crucial year to rebuild trust”. La domanda nasce spontanea: ma se questa fiducia è lesa, incrinata o addirittura svanita, e comunque da ricostruire, i signori di Davos e quell’establishment tecno-progressista non hanno per caso un po’ di autocritica da mettere all’ordine del giorno? 

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