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Daniele Capezzone: chi santifica Ilaria Salis le complica la vita

di Daniele Capezzone venerdì 2 febbraio 2024

4' di lettura

Questo giornale non ha avuto un solo istante di esitazione nel definire indifendibili e indegne le immagini di Ilaria Salis trascinata al guinzaglio in un’aula di giustizia a Budapest. Per arrivare a questo giudizio, non è necessario altro se non aprire gli occhi: queste cose non si fanno e basta, in un paese civile nell’anno 2024. Non si possono vedere né tanto meno tollerare. Tutto il resto viene dopo: se la persona sia di nazionalità italiana o no, se sia una militante di sinistra o di destra, e così via.

Per queste ragioni, merita ogni sostegno lo sforzo di Giorgia Meloni e Antonio Tajani, cioè della stessa catena decisionale che ha già riportato a casa Alessia Piperno dall’Iran e Patrick Zaki dall’Egitto. Questa vicenda – va detto onestamente – parte in salita: per le caratteristiche del sistema normativo e giudiziario ungherese, e per il tipo di accuse – tutt’altro che lievi – pendenti a carico della Salis, a favore della quale gioca comunque il principio sacro della presunzione di innocenza, valido per qualsiasi imputato.

A maggior ragione, dunque, a tutti si richiederebbe cautela e riserbo. Scatenare una rissa politica, aggredire Viktor Orban (avendo in mente come bersaglio Giorgia Meloni, questo è chiaro), aprire plateali campagne contro l’Ungheria come fa la sinistra politica e mediatica, rischia di essere il modo migliore per ottenere un unico risultato: lo stop a qualsiasi operazione efficace a favore della Salis. Non sappiamo se Ilaria potrà ottenere i domiciliari lì e quindi scontarli qui: sarebbe altamente desiderabile per lei, ma pare il percorso più impervio, per non dire quasi impossibile. La via più praticabile sembra quella, dopo una prevedibile sentenza di condanna, di ottenere un’espulsione dall’Ungheria.

Ma anche questa ipotesi richiede che non si alimenti alcuna gazzarra. In questo, rispetto al solito coro di sinistra, il più saggio ci era parso – fino a ieri – il papà di Ilaria, Roberto, che – pur provocato cento volte – non si era abbandonato alla polemica contro il governo, e anzi aveva a più riprese detto di vedere finalmente un piano e di desiderarne l’attuazione. Confessiamo di non aver capito la svolta di ieri: il preannuncio di querela contro Matteo Salvini, e addirittura contro due giornalisti come Giuseppe Brindisi e Alessandro Sallusti, è un indubbio passo falso.

È come se pure papà Salis fosse finito dalla parte dei piromani anziché da quella dei pompieri. In questa cornice, può certamente essere discussa e discutibile la scelta di un leader politico come Salvini di rimarcare la sua distanza dalla Salis anche in modo ruvido: se ne può discutere – intendo – la tempistica e l’opportunità proprio in queste giornate roventi. Ci auguriamo da qui che ci sia un buon coordinamento tra Meloni, Tajani e Salvini e che, in ultima analisi, il governo non presti il fianco a operazioni di disarticolazione che farebbero solo la felicità della sinistra. Ma è indubbio il fatto che Salvini, come ogni persona che non viva su Marte, colga un sentimento popolare: la stragrande maggioranza degli italiani desidera certamente che la Salis torni a casa e soprattutto che non sia sottoposta a trattamenti degradanti, e tuttavia la medesima maggioranza di italiani – com’è sacrosanto – non ha alcuna simpatia per organizzazioni di estremisti di sinistra che se ne vanno in giro per l’Europa a organizzare risse contro i loro nemici di destra.

È quindi doveroso – come sta già positivamente accadendo – che il governo faccia tutto ciò che è nelle sue possibilità, ed è contemporaneamente legittimo non provare alcuna simpatia per la militanza della Salis (perla quale – lo ribadisco ancora una volta – deve comunque valere il principio della presunzione di innocenza).

In questa prospettiva, è francamente lunare e controproducente che sia partita una scombiccherata campagna di beatificazione, anzi direttamente di santificazione, della Salis stessa. Ieri su Repubblica abbiamo letto il seguente virgolettato attribuito a Ilaria e sparato a tutta pagina: «In carcere mi chiamano Giovanna d’Arco». E, in sede di commento, sempre Repubblica non ci ha fatto mancare un pezzo lirico di Concita De Gregorio, che ci fa sapere che sarebbe stata «molto contenta di aver avuto o che i miei figli avessero» maestri come Ilaria. Una volta presa la rincorsa, Concita non si ferma più: «Maestri capaci di insegnare cosa sia credere in un’idea, il coraggio di esprimerla a viso aperto, difenderla anche e soprattutto quando non è l’idea della maggioranza». Ah sì? Il punto però – e questa è l’accusa mossa alla Salis e ai suoi compagni – è il tentativo violento di impedire ad altri di avere idee diverse dalle proprie. Anche questo dovrebbe meritare la nostra commossa solidarietà? La De Gregorio, per descrivere i maestri che invece non le piacciono, ironizza sul nozionismo, sui nomi dei fiumi per insegnare i quali basterebbe «un disco, una voce meccanica registrata». 

Può darsi. Ma, gentile Concita, a molti italiani – a noi fra questi – non piace per niente l’idea dell’indottrinamento a scuola, di professori e professoresse che pretendano di tradurre il verbo “educare” (che significherebbe alla lettera “tirar fuori”, cioè aiutare l’alunno a esprimere se stesso) in un abusivo “metter dentro”, in un’attività volta a inculcare ideologicamente un approccio di parte e settario. Libera, anzi liberissima Concita De Gregorio di augurarsi insegnanti militanti. Ma liberi, anzi liberissimi anche noi di non volerli, specie se pagati con il denaro di tutti i contribuenti. E ci sentiamo anche liberi di fornire un suggerimento di opportunità: più insistete con la beatificazione della Salis e l’iperpoliticizzazione del suo caso, e meno aiutate la difficile opera di Meloni e Tajani. Sempre ammesso che ciò vi interessi: perché alcuni sembrano più interessati a parlare di Orban che non a riportare a casa Ilaria.

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