La Rai è una delle più importanti istituzioni culturali del Paese, un’azienda fondamentale per l’industria italiana dell’audiovisivo, una piattaforma di informazione plurale e capillare che è sottoposta alla vigilanza del Parlamento e ha doveri che sono fissati da un contratto di servizio. La politica si illude di controllarla, ma i governi passano, i partiti nascono e muoiono, le leadership sorgono e tramontano, mentre la Rai con i suoi pregi e difetti resta, con una platea televisiva di 8,6 milioni di telespettatori medi nell’intera giornata e poco più di 20 milioni nella prima serata (dati Auditel, primo semestre 2023). Il Partito democratico ha perso le elezioni e ha subito fatto della Rai un bersaglio della sua propaganda contro la maggioranza, no news. La segretaria dei dem, Elly Schlein, ieri sera ha guidato un presidio dell’opposizione (con l’ingombrante assenza di Giuseppe Conte, leader del Movimento Cinque Stelle) e recitato il copione di “TeleMeloni”.
Il tempismo in politica è tutto, un sit-in a Viale Mazzini, mentre tutta la Rai è a Sanremo e celebra un grande e prevedibile successo di pubblico (e di fatturato), è surreale.
Schlein è fuori tempo e non è solo una scelta che riguarda l’agenda. L’oggetto (la Rai come istituzione e azienda) e il soggetto (il futuro della televisione) sono assenti. Mentre il sistema mondiale dell’informazione e dell’entertainment è in piena rivoluzione, il Pd si preoccupa (inutilmente) dei sommari del Tg1, di veline di partito (come se potessero cambiare i fatti, quella che si chiama “notizia”), di incarichi per questo e quello (che sono oggetto di ipocrita negoziazione sottobanco), mostrando a tutti la povertà della sua cultura e proposta politica. La miseria di questo dibattito è disarmante, perché il tema non è per niente marginale, la Rai è di tutto e di più di quel che racconta la sinistra con il coro di attivisti, sindacalisti e “schiene dritte” affette da scoliosi ideologica. La Rai è un’azienda che deve competere nel mercato dell’immaginario, è dentro una tempesta elettronica che ha smaterializzato il telecomando, ha polverizzato l’offerta e dato più potere di scelta ai telespettatori, infine ha moltiplicato i mezzi, le piattaforme, le occasioni di consumo. Tutto questo non l’ha fatto il Parlamento e tanto meno il governo, ma la tecnologia digitale.
CANALI E PIATTAFORME In Italia esistono 340 canali tv che sono ricevibili attraverso le principali piattaforme, di questi 289 sono prodotti da società che hanno sede nel nostro Paese, sono numeri più che sufficienti per capire quanto sia misero il dibattito e immenso il tema. Sarebbe questo il momento ideale per disegnare un sistema di informazione e intrattenimento per aumentare la quantità e qualità dei contenuti prodotti in Italia (dalle news alla fiction, settori che nell’industria contemporanea “si parlano”, pensate alle serie tv), ma Schlein e il Pd hanno un problema esistenziale con la scaletta dei telegiornali. Questo dall’altra parte, nel centrodestra, si traduce in un inseguimento della polemica del giorno. Tutti sono impegnati a commentare il nulla, mentre sono in corso grandi manovre a livello globale.
La proliferazione delle piattaforme di streaming ha avuto un effetto boomerang, il livello di soddisfazione degli spettatori è calato, gli abbonamenti sono in rallentamento e gli analisti prevedono un processo di fusione e concentrazione. Il modello Rai non è in discussione perché c’è la destra al governo, non è la causa-effetto delle scelte a breve termine dei manager oggi in carica (e domani si vedrà), ma il frutto dell’inesorabile evoluzione tecnologica, del cambiamento profondo degli stili di consumo, della necessità di avere un catalogo aggiornato di programmi (e generi) per soddisfare una domanda del pubblico sempre più esigente, raffinata, selettiva.
Il modello di business della Rai non è quello di Mediaset e di altre aziende. Sono ancora i numeri a dare una panoramica della complessità dello scenario: i canali gratuiti sono 167, di cui 105 fruibili su TivùSat; i canali a pagamento sono 122, di cui 117 quelli offerti da Sky a cui si aggiungono i 5 canali Dazn. Il pluralismo di cui si preoccupa la sinistra è un finto problema (basta pensare al posizionamento editoriale dei talk di una rete come La7, Discovery e altri), perché è assicurato da un’offerta che esonda, va oltre le capacità di assorbimento di un mercato che ha bisogno di una definizione nuova della Rai che gioca un doppio ruolo sul mercato: gode di risorse pubbliche (il canone) e raccoglie pubblicità.
“Servizio pubblico” significa raccontare l’Italia e questo, con tutto il rispetto per la storia e le grandi professionalità di Viale Mazzini, non lo fa solo la Rai. Mediaset ha un ruolo altrettanto centrale che dovrebbe essere riconosciuto, per questo ogni discussione non può prescindere dalla tv commerciale e dalla sua fondamentale presenza nella produzione di news, fiction, documentari, cinema. L’impresa guidata da Piersilvio Berlusconi è un grande player per oggi e domani, ha plasmato l’immaginario degli italiani, dato loro più libertà (questa è stata la grande intuizione di Silvio Berlusconi).
OBIETTIVI FUTURI È una galassia della quale fa parte la Mondadori, curata con passione da Marina Berlusconi, i cui titoli sono una straordinaria libreria di sapere e cultura nazionale, una fonte ricchissima di “storie” dalle quali oggi, in un ineludibile mix tra editoria classica e new media, nascono film, programmi, serie televisive. Sono le idee degli scrittori che a loro volta nutrono altri autori. Anche questo è “servizio pubblico”. Questo è lo scenario di chi fa impresa e cultura. È una sfida che riguarda tutti i partiti: la destra che è chiamata alla prova più grande, quella della cultura (faccia scelte di valore e merito); e la sinistra che non può più replicare una lottizzazione via via senza più talento. La destra è all’inizio della sua prova, vedremo cosa farà. Quanto al Pd, non può manifestare contro se stesso, conferma di aver dimenticato il programma del (suo) passato e di non saper leggere la sceneggiatura del presente.