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Marco Cimmino: il vero Che Guevara dietro le magliette

di Marco Cimmino giovedì 14 marzo 2024

4' di lettura

L'uscita per i tipi di Eclettica della versione italiana della biografia di Ernesto “Che” Guevara, ad opera di Nicolàs Marquez, rappresenta un evento editoriale di una sua peculiare ed originale valenza, che merita una riflessione particolare. Riflessione che non riguarda soltanto la pubblicazione di un libro decisamente controcorrente, rispetto tanto alla vulgata guevariana, quanto alla sciropposa mitologia idologico-commerciale che ha da sempre alonato la figura del guerrigliero argentino. Diciamo che, più in generale, grazie al contributo del libro di Marquez, è il meccanismo mitopoietico che ha originato il culto laico del “Che” che andrebbe analizzato e, in un certo senso, messo in ridicolo: perché ridicolo è, epistemologicamente, il culto stesso di uno come Guevara.

Mi spiego: non c’è nulla di male se una certa sinistra o l’industria dei gadget e delle magliette s’impadroniscano di un personaggio storico e lo trasformino in un brand di successo, tanto politico quanto commerciale. Quello che suona vagamente comico è che questa beatificazione muova da aspetti caratteriali e biografici affatto estranei al personaggio in questione. Per capirci, non c’è nulla di male nella mitizzazione, chessò, di Elton John, nascondendone vizi e difetti ed esaltandone a dismisura le virtù: ma fare del cantante britannico un’icona della virilità o rappresentarlo come un “tombeur de femmes”, ecco, quello suonerebbe piuttosto ridicolo. Lo stesso dicasi per Guevara: dipingere un carattere ossessivo-compulsivo come un lucido e nobile paladino dei deboli o gabellare per democratico uno che fu tutto tranne che questo, ha suscitato sempre, a ragione, nelle persone di buon senso un’impressione di farsa, di pochade storiografica e pubblicitaria, che si è scontrata con un approccio del tutto fideistico ed idolatra, esercitato dagli ammiratori del “Che”.

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E, difatti, il libro di Marquez ruota proprio intorno alla vulgata guevariana, smontandola pezzo a pezzo, con testimonianze quasi sempre di amici o parenti del “Che”, e quindi estranee al sospetto di propaganda ostile, mettendo in risalto non tanto le turbe psichiche e i controsensi della complessa personalità di Guevara, quanto, piuttosto, la costruzione di un’immagine mitologica positiva, fin da quando Guevara stesso era ancora in vita. Verrebbe da dire che il “Che” sia stato creato, come immagine di eroe popolare, innanzitutto dal “Che”. Inutile dire che, dalle pagine della biografia di Marquez, esce un uomo molto diverso da quello esportato dalle canzoni cubane o da certa letteratura agiografica: questo ce lo aspettavamo e accade praticamente per tutti i grandi della storia, quando se ne studi la vita “sine ira et studio”. Nel caso di Ernesto Guevara, però, viene da dire che ci sia qualcosa di più e di peggio: come, infatti, sia potuto avvenire un simile rovesciamento della realtà storica, nella narrazione mitologica, è cosa affatto difficile da spiegare. Perché il mito, si sa, affonda le proprie radici nella storia: però, di solito, ne asseconda il carattere, non lo ribalta completamente. Le armi di Achille erano fatate, perché le armi achee erano di ferro: la narrazione di armi fatate all’inverso, ovvero fragilissime, a fronte di una realtà storica come quella achea, non avrebbe avuto senso.

Invece, nel caso di Guevara, tutta una serie di sue caratteristiche negative, come il razzismo, la ferocia gratuita, il narcisismo patologico e così via, sono state completamente ribaltate, lasciandoci l’immagine di un eroe puro, disinteressato, umano e mai e poi mai razzista. Naturalmente, questo candeggio impertinente della figura del “Che” si spiega ancora di più nel caso del colossale merchandising legato all’icona rivoluzionaria: immaginare che i ragazzi di tutto il mondo vadano in giro cantando “We shall overcome” con stampata sulla maglietta la faccia di uno che ha ammazzato decine di persone di propria mano, a volte per semplice arbitrio e senza uno straccio di processo, stride non poco. Guevara è un brand che deve essere tutelato, come la Coca Cola o il coccodrillo Lacoste. Impossibile associarlo ad azioni ripugnanti e di pura crudeltà, come se fosse il capitano delle SS di Schindler’s List. I cattivi, perlomeno in certo immaginario collettivo, devono rispondere a precise caratteristiche ideologiche, fisiognomiche e psicologiche: non si può mescolare l’idea dell’efferatezza o del sadismo con quella secondo cui gli eroi son tutti giovani e belli.

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Eppure, Ernesto Guevara de la Serna questo era: un bell’uomo (ancorchè piuttosto deficitario sul piano dell’igiene personale), un guerrigliero abile, uno che non temeva la morte e anzi talvolta pareva cercarla, ma anche un gelido assassino, un crudele arbitro della vita e della morte di tanti suoi compagni, da lui uccisi per semplici sospetti di tradimento e, talora, neppure per quelli. E sul particolare della bellezza di Guevara vorrei concludere questo breve intervento: se il “Che” non avesse così ben corrisposto ad un preciso ideale estetico, in voga negli anni Settanta, probabilmente, l’industria della moda non se ne sarebbe appropriata. Invece, Guevara fu la Marylin Monroe del movimento: l’Apollo della sinistra rivoluzionaria. Con quell’aria da eroe romantico, la barba incolta, i capelli in disordine, la giacca mimetica, quel basco così perfetto nella sua inarrivabile trascuratezza, il “Che” sembrava fatto per occhieggiare dalle magliette delle adolescenti. E questo fenomenale successo di marketing ha, incredibilmente, cancellato la storia: le sembianze, le amene sembianze, hanno vinto un’altra volta.

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