C’è un rumoroso campanello d’allarme che dovrebbe suonare almeno due volte, in queste ore, dalle parti del centrodestra. Primo caso: l’altro ieri è certamente giunta una notizia favorevole alla trentennale narrazione antiberlusconiana, quella che intende proiettare una luce cupa sulle origini di Forza Italia e – per estensione – su tutto lo schieramento alternativo alla sinistra, una specie di incancellabile peccato originale che renderebbe la destra geneticamente “sporca” (abbiamo dovuto leggere anche questo, pressoché alla lettera). Si tratta della decisione dei magistrati di Firenze di disporre – come misura cautelare – un consistente sequestro ai danni di Marcello Dell’Utri. Attenzione però: la sera stessa, da Palermo, è giunta una notizia uguale e contraria, perché il tribunale del capoluogo siciliano ha respinto un’analoga richiesta di confisca verso Dell’Utri, e lo ha fatto – testualmente – evocando una «finora indimostrata esistenza di accordi fra il sodalizio criminale e Berlusconi, sia in campo imprenditoriale che politico».
Si tratta di una motivazione clamorosa, roba da fare a pezzi (piccolissimi) alcuni decenni di accuse-insulti-offese contro il fondatore di Forza Italia. In termini semplici, i giudici mettono nero su bianco che non sono provati accordi tra la mafia e Berlusconi. Ecco, tenetevi forte: questa notizia (quella buona per la destra, per capirci) era ieri in prima pagina su Libero, ma, con pochissime altre meritorie eccezioni, è risultata praticamente assente da carta stampata e trasmissioni radiotelevisive. Nulla o quasi, tamquam non esset, come se la cosa non ci fosse. Veniamo al secondo caso, quello relativo all’accertamento disposto dal Viminale sul comune di Bari. In decine e decine di altri casi era stata avviata una procedura del genere, tra gli scroscianti applausi della sinistra. Ma stavolta – siccome a essere sfiorata è un’amministrazione progressista – si è scatenata una canea impressionante. E, come un sol uomo, i giornali giustizialisti (quelli che, in presenza di disgrazie altrui, recitavano lo scioglilingua «male non fare, paura non avere») sono diventati tutti improvvisamente garantisti, e pure i grandi quotidiani cosiddetti indipendenti non hanno avuto un istante di esitazione nello sposare una linea di assalto contro il ministro degli Interni Piantedosi, improvvisamente catapultato – non si sa bene perché – su un metaforico banco degli accusati.
Non solo: il carro di Tespi delle associazioni antimafia, delle personalità in lotta, cioè di coloro che di solito partecipano alla lapidazione dell’accusato (se “destro”, sia chiaro), hanno immediatamente trattato Antonio Decaro come una specie di madonna pellegrina, portandolo in processione tra piazze e studi televisivi, e presentandolo come un martire. Sia ben chiaro: nessuno ha personalmente accusato il sindaco di Bari di alcunché, ci mancherebbe. Si tratta solo, in presenza di pesanti infiltrazioni in una municipalizzata, e davanti a una penetrante inchiesta che coinvolge una serie di personalità transitate nell’area di potere della sinistra politica pugliese, di svolgere gli accertamenti del caso. E invece no: Decaro strilla, suda, si agita, lancia invettive e improperi, sparacchia bengala distraenti. E che fanno i mozzaorecchi di sempre? Gli lanciano petali di fiori, commossi ed estasiati.
Ecco: questo spettacolo non deve affatto far sorridere il centrodestra, ma dovrebbe indurlo a profonde riflessioni. Altro che battaglia per la mitica “egemonia culturale” da strappare alla sinistra. Con rare eccezioni, i ministri o almeno molti di loro, nei giorni in cui occorrerebbe essere massimamente combattivi, tendono a svanire nel nulla: o è Giorgia Meloni a esporsi e battersi in prima persona, oppure è molto probabile che cali il silenzio. Tra i parlamentari (anche qui, con lodevoli eccezioni: penso alle iniziative assunte in queste ore da Maurizio Gasparri) prevale la timidezza, una certa difficoltà di salire sul ring. Quanto alla comunicazione scritta e audiovisiva – pure qui con poche eccezioni che confermano la regola – è sempre la sinistra, con facilità impressionante, a dettare l’agenda, a imporre la narrazione, a dare il tono alla musica.
Sarà bene che i tre partiti di governo ci riflettano. Si è già avuto un assaggio dei potenziali effetti di questa aggressione nel mese più difficile attraversato dalla maggioranza (le due settimane precedenti al voto in Sardegna e le due settimane successive). Ora, nel cammino di una legislatura, è perfettamente fisiologico che ci siano momenti delicati. Ma è proprio in quelle fasi che deve esserci e manifestarsi una struttura politica robusta capace di far fronte alle difficoltà.
E – si badi bene – non è un problema di comunicazione, ma di sostanza. Di tempra e livello del personale politico, di chiarezza e tempificazione degli obiettivi programmatici, delle scelte (di maggiore o minore qualità) che vengono fatte anche nel settore dell’informazione pubblica, di orizzonti culturali più o meno angusti, di volontà di coinvolgere persone libere e capaci ad ogni livello degli apparati e delle amministrazioni dello Stato, oltre che in una società viva e vibrante come quella italiana. Poi c’è anche una questione di comunicazione: ma è – logicamente e cronologicamente – solo l’ultimo anello di una catena che Palazzo Chigi e i tre partiti di maggioranza faranno bene a registrare.