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Alberto Fraja: tutto l'amore di Sartre per l'Urss di Stalin

di Alberto Fraja mercoledì 27 marzo 2024

 Sartre

3' di lettura

Jean-Paul Sartre fu a lungo il filosofo nichilista del costume europeo, il maître à penser venerato dai goscisti di ogni latitudine, il guru per antonomasia. Ai suoi responsi oracolari, da Pizia del ventesimo secolo, si abbeverarono legioni di littori dell’engagement più impegnato.

Erano i formidabili anni Cinquanta e Sessanta, il decennio in cui a Parigi per essere ritenuti esistenzialisti bastava indossare giacche di velluto, maglioni neri con il collo alto, praticare l’amore libero e fare le ore piccole nelle “caves”, dove, tra cortine di fumo di sigarette Gauloises, col sottofondo musicale di orchestrine jazz alla Sidney Bechet, o della voce roca di Juliette Gréco, si potevano pronunciare frasi ispirate e laconiche sull’inautenticità dell’esistenza borghese e lamentarsi della prigione metafisica esistenziale. Fuffa allo stato puro.

COMPAGNI DI LETTO E DI LOTTA - Jean-Paul Sartre sproloquiava su argomenti i più disparati: il voyerismo, la vergogna, il sadismo, le arti, la musica. Peccato che ai suoi ipnotizzati ascoltatori evitasse accuratamente di raccontare la verità di quanto accadeva nel paradiso tanto agognato dai suoi compagni fricchettoni, quell’universo concentrazionario chiamato Urss. Non avrebbe potuto farlo, siccome monsieur Sartre fu a lungo uno di quei pensatori che, grazie alla sua autorevolezza culturale, avallò in Occidente la campagna di maquillage dell’Unione Sovietica post Stalin. Tacque per un ragguardevole lasso di tempo sulle magnifiche sorti e progressive di quella che è stata la più crudele delle dittature. Un brano di vita passata abbastanza ingombrante per il filosofo francese che la slavista Cécile Vaissié, docente in studi russi e sovietici all’Università di Rennes II, ha di recente fatto riemergere attraverso la pubblicazione di un libro di grande coraggio Sartre et l’Urss (Presses Universitaires de Rennes Editore, 400 pagine, 12,90 euro).

I viaggi in Unione Sovietica del venerato filosofo cominciarono nel 1955 per concludersi dieci anni dopo. Nella terra di Cirillo e Metodio, Sartre volò undici volte, spesso insieme con la sua compagna di letto e di lotta Simone de Beauvoir. Jean-Paul s’innamorò del paradiso dei soviet al punto tale da distribuire al bruto populace reazionario perle di questo tipo: nel luglio del 1954, a un giornalista di Libération, dichiarò che se i cittadini sovietici non andavano all’estero non era perché il regime lo impedisse, ma perché non provavano alcun desiderio di lasciare il loro meraviglioso paese. «I cittadini sovietici» assicurava Sartre «criticano il loro governo molto più apertamente e in modo più efficace di quanto non facciamo noi». Anzi, «in Unione Sovietica vige la più totale libertà di critica».

Non è tutto. Immaginando il futuro radioso della patria dei soviet, Sartre inciampò in una serie di vaticinii di estrema comicità. Come quando, sempre in quel fatidico 1954, reduce dal primo viaggio in Russia, dichiarò di nuovo a Libération che di lì a cinque anni il tenore di vita sovietico sarebbe stato del trenta o quaranta per cento superiore a quello francese. Risate.

IL RIPENSAMENTO - Neanche a dirlo, il filosofo parigino veniva accolto a Mosca con grandi onori e talvolta con rilevanti ricompense per le opere tradotte in russo, denaro che però veniva corrisposto in rubli e dunque spendibile soltanto in loco. Meglio di niente. Neppure la violenta repressione della rivolta di Budapest, nel 1956, servì a far traballare l’incrollabile fede sovietica del padre dell’esistenzialismo.

Saranno soltanto i carri armati nelle strade di Praga, dodici anni più tardi, a convincerlo a prendere le distanze dal Cremlino; benché negli anni successivi abbia manifestato una bizzarra simpatia per il maoismo proprio nel periodo più duro della Rivoluzione Culturale cinese. In questa lunga stagione di infatuazione sovietica, scrive la Vaissié, tali ostinate posizioni gli alienarono persino le simpatie di parte della sinistra francese ed europea, dato che persino il Pcf prese le distanze da Mosca dopo i fatti di Budapest del 1956. «Jean-Paul Sartre è stato del tutto indifferente alle migliaia di vittime del Grande Terrore staliniano, alle deportazioni di molti intellettuali nei gulag, alla repressione della dissidenza negli anni Sessanta» conclude la Vaissié. Sic transit gloria mundi.

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