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Daniele Capezzone: Landini è fuori dalla realtà ma il Pd continua a inseguirlo

di Daniele Capezzone sabato 4 maggio 2024

4' di lettura

Delle due l’una. O Maurizio Landini è ipnotizzato dallo specchietto retrovisore e confonde il 2024 con il 1985, quando la Cgil straperse il referendum sulla scala mobile, certificando - in un colpo solo - l’invecchiamento del sindacato tradizionale, il suo perdersi in una foresta pietrificata antiriformista, e in ultima analisi la sua incapacità di guardare al di fuori del recinto di una quota irrimediabilmente minoritaria del mondo del lavoro. Oppure - seconda ipotesi - il capo del sindacato rosso è ben consapevole di tutto questo, ma sceglie lo stesso una linea di scontro frontale ideologico per purissime ragioni politiche: e cioè per abbracciare i grillini in vista delle politiche del 2027, per indurre il Pd all’ennesimo cedimento culturale, per imporre un ticket Conte-Landini con una Schlein fatalmente gregaria e con gli ex renziani costretti a lasciare idem o ad accettare l’ennesima umiliazione.

È naturalmente possibile anche il cumulo delle due ipotesi: e cioè che Landini vada dove lo porta il cuore (cioè all’indietro, fuori dalla realtà di oggi, verso un confuso massimalismo anticapitalista) ma anche dove lo porta il calcolo (e cioè verso un protagonismo politico minoritario che poco o nulla ha a che fare con le funzioni di un sindacato moderno, ma che gli servirà a egemonizzare una sinistra smarrita e senza prospettive).

Per arrivare a queste conclusioni non è necessario l’inseguimento di retroscena, indiscrezioni o documenti segreti: è più che sufficiente ascoltare i discorsi pubblici di Landini ed esaminare le sue iniziative ufficiali.

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Il suo ultimo discorso è quello del Primo Maggio, impressionante per l’attitudine al racconto di fantasia a tinte dark («siamo a Monfalcone per raccontare lo sfruttamento che avviene nel più grande cantiere navale d’Italia»), per la polemica costante contro le imprese e in fondo con lo stesso sistema capitalistico («bisogna cambiare il modello di sviluppo», testuale!), oltre che per il nesso causale meccanicamente individuato tra lavoro precario e incidenti sul lavoro.

Ascoltandolo, si poteva avere l’impressione di trovarci tutti in un paese in via di sviluppo, per non dire in una terra di oppressione e negazione dei diritti umani e civili.

Peccato che ogni giorno escano dati-record sull’andamento del mercato del lavoro in Italia: sugli occupati in generale, sui contratti a tempo indeterminato, su plurimi e convergenti segnali confortanti proprio rispetto a ciò che dovrebbe stare a cuore a un sindacato e a una sinistra normali.
Come Libero (in solitudine) ha fatto notare tre giorni fa, lo stesso Presidente della Repubblica, di solito ascoltatissimo e citatissimo a sinistra, aveva sottolineato i lusinghieri dati italiani, in testa alla graduatoria europea. Ma nemmeno le parole del Capo dello Stato, stavolta, hanno contribuito a smuovere la narrazione landiniana.

E poi - oltre le parole - ci sono i fatti, cioè le iniziative della Cgil: con una campagna referendaria scombiccherata, nella quale i due quesiti manifesto (su quattro complessivi) sono volti a reinserire le causali nel contratto a tempo determinato (innescando liti e contenziosi infiniti) e ad abolire un residuo del Jobs Act renziano, e cioè quel contratto a tutele crescenti che era già stato smozzicato e ridimensionato sia dal primo governo Conte che dalla Corte Costituzionale.

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Morale: è pressoché scontato che, se dei referendum del genere arrivassero al voto, non ci sarebbe il quorum. Di più: per le ragioni che abbiamo visto, si tratta - politicamente parlando- di una macchina che procede contromano in autostrada, nel senso che non tiene conto di come oggi, a legislazione vigente, l’occupazione italiana cresca e sia meno precaria.

E allora? E allora torniamo al dilemma iniziale. Si può sostenere che ci sia una specie di ossessione ideologica landiniana (vero), ma si può anche ritenere (vero altrettanto) che il senso dell’iniziativa sia quello di fare pura agitazione politica. E infatti Conte (ormai sodale di Landini) ha già firmato i quesiti, mentre Schlein esita a farlo, è imbarazzatissima, anche perché gran parte dei suoi parlamentari votarono quelle norme ai tempi di Renzi.

Lo schema è dunque il solito: proprio come sull’Ucraina e su Gaza, pure sul lavoro Landini-Conte accelerano a sinistra, costringono Schlein a inseguirli, a schierare pezzi della sua segreteria sulla linea Cgil-M5S, salvo però venire lo stesso bacchettata per non aver fatto abbastanza. Sulla “pace”, questa funzione è svolta dalle candidature di Marco Tarquinio e Cecilia Strada. Si tratta solo di attendere qualche giorno per scoprire, ad esempio attraverso la sottoscrizione dei quesiti referendari, quali saranno i dirigenti dem che faranno lo stesso in materia di lavoro, confermando quella che ormai è una costante: Pd in totale sudditanza culturale e psicologica, ma comunque bastonato da grillini e landiniani. 

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