Più le speranze sono frustrate, più lo tirano per la giacca (come da espressione fin troppo abusata nel lessico politico). È questo il destino di Sergio Mattarella. Prendiamo la contestatissima- dall’opposizione parlamentare e “culturale” - riforma dell’autonomia differenziata. Dal giorno dell’approvazione del provvedimento, gli occhi di chi è in cerca di qualsiasi appiglio da utilizzare contro il governo Meloni si sono girati verso il Colle. E qui si arriva alle speranze frustrate. Già, perché il presidente della Repubblica, cui la Costituzione affida il potere di promulgare le leggi (articolo 87), sei giorni dopo il via libera definitivo del disegno di legge governativo ha apposto il sigillo del Quirinale alla riforma. Era il 27 giugno e i cronisti parlamentari annotavano come con quella firma Mattarella avesse di fatto smentito «le ipotesi di un esame non velocissimo» da parte della presidenza della Repubblica. Invece, «come prassi Mattarella ha promulgato la legge in tempi più che ordinari». E allora viene da chiedersi come mai le parole pronunciate dal Capo dello Stato a Trieste due giorni fa in occasione della cerimonia di apertura della 50esima edizione della “settimana sociale dei cattolici in Italia” siano state enfatizzate prima e strumentalizzate poi in funzione anti-Palazzo Chigi. Quasi che Mattarella fosse, come sottolineato ieri dalla premier Giorgia Meloni, il “capo dell’opposizione ombra”.
Quei richiami ai rischi delle «democrazie imperfette», ai «marchingegni» suscettibili di alterare «la rappresentatività e la volontà» degli elettori», al pericolo di «una democrazia della maggioranza», sono stati piegati ad uso e consumo della narrazione - cara alle opposizioni di un Mattarella ultimo baluardo alla deriva illiberale italiana “stile Orbán”. Su Repubblica, l’ex direttore Ezio Mauro ha scritto che con il suo intervento il Presidente ha dato lustro alla «coscienza del limite». «È un richiamo a contrastare lo spirito dei tempi, la tentazione di inseguire sempre quote supplementari di potere oltre a quello legittimo conquistato nelle libere elezioni». Del resto il quotidiano ha titolato in modo inequivocabile: «Mattarella: no al potere illimitato». Avvenire, l’organo della Conferenza episcopale italiana, ha addirittura creato l’asse Quirinale-vescovi. Di qua Mattarella - «La maggioranza non è mai senza limiti. Pace e diritti, l’alfabeto della democrazia» - di là il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei: «Un Paese per tutti, al centro la persona». Quel Zuppi ipercritico sull’autonomia differenziata. Poi il monito di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale: «La salute delle istituzioni democratiche si misura nelle condizioni dei più fragili». Il giornale gemello di Repubblica, ovvero La Stampa, non è stato da meno: «Riforme e democrazia, allarme di Mattarella». Perché chi vince le elezioni non può fare poi «come gli pare, compreso calpestare le minoranze». Quella è l’odiosa idea «di stampo populista».
Il quotidiano torinese ha avvalorato questa ricostruzione con un’intervista all’ex presidente della Corte costituzionale Gaetano Silvestri (a cavallo tra il 2013 e il 2014). Secondo il giurista, la riforma del premierato è un «progetto ispirato a una logica di cumulo autoritario del potere, che si articola in due modi: l’elezione diretta del presidente del Consiglio e una legge elettorale che deve creare una maggioranza a sua immagine e somiglianza. Di fatto, così il premier raddoppierebbe il suo potere». Ma anche il disegno di legge costituzionale con le «Disposizioni per l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del presidente della Repubblica» ha ricevuto il semaforo verde dal Colle il 15 novembre 2023. Vale la pena ricordare che Silvestri è entrato a far parte della Corte costituzionale nel giugno 2005, eletto con 587 voti dal Parlamento in seduta comune su indicazione del centrosinistra.
Allo stesso modo Flick, interpellato da Avvenire, è stato ministro della Giustizia con Romano Prodi nel 1996-’98 e candidato con il centrosinistra alle Politiche del 2013. Quel centrosinistra che oggi, seppure in formazione riveduta e corretta rispetto a quella di vent’anni fa, spara un giorno sì e l’altro pure su ogni cosa proveniente da Palazzo Chigi. Per dire, anche ieri uno dei due leader di Avs, Angelo Bonelli, ha ricordato che con le sue parole il capo dello Stato ha sottolineato che è vero che «chi vince governa, ma chi vince deve anche rispettare i ruoli delle minoranze e il bilanciamento tra i poteri dello Stato». Cosa che, va da sé, con le riforme del governo sarebbero a rischio. Bonelli nel calderone ha messo anche «la riforma contro la magistratura», che ieri ha vissuto una giornata chiave con l’approvazione, da parte della Camera, della riforma del codice penale nella parte in cui cancella l’abuso d’ufficio. Ma il 20 luglio dello scorso anno il presidente della Repubblica ha dato il via libera al disegno di legge per la riforma della giustizia, firmato dal Guardasigilli Carlo Nordio.