È accusato di aver sequestrato dei migranti, ma in ostaggio alla fine ci è finito lui. Sono passati quattro anni da quando Matteo Salvini ha messo per la prima volta piede nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo. Quattro anni per una vicenda – quella dell’Open Arms - che rischia di costargli una quindicina d’anni di galera. Non uno scherzo. Il suo supplizio è iniziato con l’autorizzazione a procedere del Parlamento, arrivata grazie al ribaltone del Movimento Cinque Stelle, che con calma olimpica ha votato a favore rimangiandosi tutta la linea tenuta sull’immigrazione dal primo governo Conte, quello gialloverde.
Salvini, al contrario, si è sempre detto orgoglioso di quanto deciso nell’agosto del 2019, quando accettò la sfida lanciata dalle Ong alla linea dei “porti chiusi” italiana ordinando - in accordo con i grillini - di non far sbarcare i migranti. E questa settimana la storia arriva a un punto di svolta. Per sabato è attesa la requisitoria dell’accusa. La Lega sta preparando una mobilitazione contro un processo che per una ventina di ragioni non sta in piedi. Anche se, tra queste venti, tre spiccano.
Prima questione. Salvini come dicevamo è accusato di sequestro di persona. E al riguardo non possiamo che riprendere la teoria esposta (ovviamente non tanto in difesa di Salvini, quanto di Conte) da Marco Travaglio all’epoca dei fatti. Come si può definire sequestro, se la nave poteva solcare i mari dell’intero pianeta e sbarcare in qualsiasi altro porto di qualunque altro Paese? Mistero. Tanto più che l’equipaggio spagnolo ha rifiutato più volte assegnazioni offerte da altri governi, avvenuto per altre vicende simili (per esempio nel caso della Gregoretti).
Secondo tema. La procedura utilizzata da Salvini per disincentivare gli sbarchi è stata replicata centinaia di volte (solo all’inizio del processo se ne contavano 130) anche dai successivi governi. Il leghista tenne in mare la Open Arms sette giorni. Dopo la fine del suo mandato, la Ocean Viking sbarcò a Pozzallo a dieci giorni dalla prima richiesta il 30 ottobre 2019. Nell’agosto 2021 ne attese altri dieci. L’anno dopo, a maggio, ne passarono nove. È andata peggio alla Sea Watch 4, entrata nel porto di Augusta dopo quattordici giorni di stop. La Geo Barents nel 2022 venne fermata in mare per otto giorni e in altre due occasioni per 10. La Open Arms 1 sempre quell’anno restò al largo 10 giorni. Pessime notizie anche per l’Humanity 1, sbarcata a Taranto a settembre 2022 dopo sedici giorni. Record eguagliato dalla Ocean Viking nel novembre 2022. L’ordine in tutti questi casi è arrivato dal successore di Salvini, Luciana Lamorgese, per conto di una coalizione formata dagli stessi partiti che hanno mandato a processo Salvini. Ovviamente, nessuno si è sognato di indagare il ministro. Un dettaglio: nel corso del dibattimento è stata totalmente smentita l’ipotesi che la nave fosse a rischio affondamento perché stava imbarcando acqua.
Terzo tema. Il primo divieto di ingresso in acque italiane alla Open Arms – poi annullato dal Tar - era stato firmato anche dall’allora ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli (trema anche la tastiera a ricordare che è stato un ministro della Repubblica...) e dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta. Per non parlare del fatto che il presidente del Consiglio ha avuto del tempo per prendere in esame la vicenda, che ovviamente in quei giorni teneva banco su tutte le prime pagine dei quotidiani italiani. Eppure non sono stati chiamati in causa dalla magistratura, se non come testimoni. Al riguardo, la figura più incredibile è stata quella di Toninelli, che chiamato in aula per l’Open Arms ha fatto mettere a verbale ben 42 “non ricordo”. Ovviamente nessuno s’è sognato di indagare su di lui. La Procura aveva già trovato il responsabile di tutto, Matteo Salvini, inutile cercare altrove.