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Pur di riformare la giustiziail Cav ingoia pure lo spinello

Lucia Esposito
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Certo:  pensare a Berlusconi che appoggia anche il referendum per la marijuana depenalizzata fa un po' effetto. Certo: pensare a Verdini  e  alla Santanchè che da domani si affannano perché gli italiani possano votare sul diritto allo spinello, è piuttosto strano. E  immaginare Gasparri che organizza banchetti  per l'abolizione delle norme più restrittive della Bossi Fini,  a cominciare del reato di clandestinità, pare perfin paradossale. Però il fatto è questo: il Cavaliere ha deciso di  firmare tutti e dodici i quesiti proposti da Marco Pannella. Non solo i sei sulla giustizia, ma anche gli altri sei. Quelli che non condivide, come ha subito tenuto a specificare. «Gli italiani devono potersi esprimere», spiega. E non osiamo immaginare la faccia di Gianni Letta al pensiero che gli italiani debbano potersi esprimere anche sull'8 per mille alla Chiesa... Ma che ci volete fare?  Scocca l'ora del Silvio referendario. E, come ogni altra versione del Silvio finora conosciuta, anche questa è strasbordante, totalizzante, illimitata. Berlusconi è fatto così: quando si butta in una avventura, per indole, non si ferma mai a metà, a costo di travolgere anche pezzi di se stesso, o di esporsi alle accuse. Molti per esempio in queste ore stanno puntando il dito sulle contraddizioni. Ma come? Sei sempre stato contro le droghe e  all'improvviso ti schieri (anche se con tutti i dovuti distinguo) dietro la bandiera della cannabis libera? Ma come? Arrivi persino al punto di firmare il referendum contro una legge, come la Bossi-Fini, che è stata una dei fiori all'occhiello del tuo medesimo governo?  Si capisce: per un verso c'è sicuramente qualcosa di tattico, machiavellico, forse anche strumentale. L'obiettivo della riforma della giustizia è oggi prioritario per il Paese: lo dicono tutti, a cominciare dai piani alti del Quirinale. Figurarsi se non ne è convinto Berlusconi. E se per riformare la giustizia è necessario mettere a rischio la Bossi-Fini o la severità contro le droghe, pazienza. E pazienza pure se si dà via libera ai quesiti sull'8 per mille e sul divorzio breve,  facendo imbestialire qualche monsignore.  Che vale, tutto ciò, di fronte alla sfida di un processo giusto, senza il quale non esiste democrazia? Ormai il Cavaliere è un politico, a tutti gli effetti. Conosce l'arte del compromesso. Sa che per avere bisogna cedere qualcosa. E sa che il cambiamento, per essere possibile, a volte deve passare per la strada della larga intesa, fosse pure una larga intesa in salsa pannelliana. Però la scelta di affidarsi ai referendum non è frutto soltanto della tattica. Lì dentro c'è un po' anche del Cavaliere di sempre e forse anche del Cavaliere del futuro. «L'esperienza insegna che le riforme in questo Paese si fanno unicamente sotto lo spettro, la minaccia, anche disordinata, della consultazione popolare». Lo scriveva Ferruccio De Bortoli nel gennaio 2000. In effetti non sempre è andata così: a volte neppure la consultazione popolare (il finanziamento pubblico ai partiti lo dimostra) è stata sufficiente per spingere il sistema a modificarsi. Però Berlusconi, dopo aver sbattuto la testa contro il muro di gomma della conservazione, dopo aver mancato l'appuntamento con le riforme liberali, dopo essersi scontrato con la difficoltà di riformare la giustizia stando al governo, ha capito che l'unica svolta possibile passa attraverso la strada del voto popolare. Non è sempre stato così. Nel 2000 c'erano già i referendum pannelliani sulla giustizia, c'era  già il voto per la separazione delle carriere, contro i doppi incarichi, per la modifica del Csm. Ma il leader del centrodestra, dopo qualche tentennamento, invitò i suoi elettori a disertare le urne e i quesiti non raggiunsero il quorum. Anche nel 2011 Berlusconi, da premier, attaccava i referendum (sul nucleare e sull'acqua), accusando lo strumento di essere «demagogico». Ora invece sente il bisogno di tornare lì, al banchetto delle firme, al bagno di folla, sente il bisogno di ricorrere direttamente al rapporto con la gente, foss'anche demagogico, chi se ne importa, perché capisce che la partita delle riforme può essere vinta solo con una forte spinta dal basso. Ecco perché dicevamo che dentro quelle firme sottobraccio con Pannella c'è dentro un po' del Cavaliere di sempre e anche un po' del Cavaliere del futuro. Perché c'è il ritorno alla radice, alla base di quella Forza Italia che aveva dentro di sé una forza rigeneratrice, riformatrice, che avanzava sulle ali dell'entusiasmo più che dentro i canoni classici di partito, che si fondava sul filo diretto fra leader e il suo popolo; perché c'è dentro il Cavaliere totalizzante e strabordante, anche contraddittorio nella sua forza travolgente, il leader capace di mettere insieme,  storicamente Bossi e Fini, Martino e la Mussolini, Taradash e Giovanardi, i baciapile e i libertini, i liberisti e gli statalisti, i separatisti e gli ultranazionalisti, l'uomo che punta sempre all'obiettivo, anche se per ottenerlo deve rompere gli schemi consueti e le formule consolidate. Ma soprattutto perché c'è dentro un po' di quello che sarà il Cavaliere di domani, quando rilancerà Forza Italia sfidando a scendere in campo, come fece lui vent'anni fa, tutti coloro che non si rassegnano ad un Paese ingordo e ingiusto. E il richiamo alla democrazia diretta diventa dunque il primo passo verso  il richiamo all'impegno diretto. Il referendum, cioè, diventa il  modo per dire al popolo moderato di centrodestra:  è l'ora di muoversi. Adesso tocca a voi. Mario Giordano

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