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Giuseppe Conte al guinzaglio dei 5 Stelle: il gioco sporco con Di Maio

Cristina Agostini
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La triste storia del sottosegretario leghista Armando Siri, vittima della faida pre-elettorale tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ha un lato istruttivo. È servita a far togliere la maschera a Giuseppe Conte, a fugare ogni dubbio su chi egli sia davvero. Non è un illustre tecnico che ha accettato di essere punto di equilibrio tra i Cinque Stelle e la Lega. Nemmeno è ciò che aveva promesso di essere a giugno nell'aula del Senato al momento dell'insediamento, ovvero il «garante dell'attuazione del Contratto per il governo del cambiamento», «l'avvocato che tutelerà gli interessi del popolo italiano» e altre trombonate del genere. Il presidente del Consiglio è solo uno dei pochi grillini laureati, l'unico con una cattedra universitaria e la capacità di azzeccare i congiuntivi (se non tutti, buona parte). L'insignificante leader dei liberali europei, il belga Guy Verhofstadt, tre mesi fa lo aveva definito «il burattino mosso da Di Maio e Salvini», e su Libero ci eravamo incavolati con lui per queste parole. Ci sbagliavamo noi e si sbagliava pure Verhofstadt: è uno solo a tirare i fili di Conte, ed è Di Maio. Leggi anche: "Non sono un indovino ma ho una certa sensazione". Vespa, la bomba sulla crisi e sul "dilemma" di Salvini Il professore di Volturara Appula ha dimostrato di non poter garantire né il rispetto del contratto di governo né la componente leghista della maggioranza. Una delle poche certezze, in quel documento dove sull' autonomia delle regioni del Nord, sui treni ad alta velocità e cento altri argomenti è scritta ogni cosa e il suo contrario, è che chi si trova nelle condizioni di Siri non deve dimettersi. Testualmente, si stabilisce che non può fare parte del governo chi è «sotto processo per reati gravi (ad esempio: mafia, corruzione, concussione, etc.)». Al momento Siri è solo indagato: non è rinviato a giudizio, né è detto che lo sarà mai. Eppure il premier lo ha appena cacciato dal governo, dopo aver detto di considerare «sacra» la presunzione d' innocenza, perché così gli ha ordinato di fare Di Maio. E ciò nonostante «la gran parte di queste indagini si risolva con un' archiviazione o un proscioglimento», come ricordato dal magistrato Carlo Nordio sul Messaggero, ed è normale che sia così, giacché «l' informazione di garanzia è un atto dovuto a favore dell' indagato, non costituisce un anticipo di condanna e nemmeno una valutazione di colpa». Altrettanto ridicola, a questo punto, è diventata la sua pretesa di fingersi «avvocato del popolo». Giudice del tribunale del popolo, semmai: quello sì. Ma di un popolo solo, quello dei Cinque Stelle, dinanzi al quale Di Maio vuole ricostruirsi la verginità prima del voto per le Europee, dopo il crollo di consensi dovuto alla scelta di sottrarre Salvini al processo per il "sequestro" degli immigrati a bordo della nave Diciotti. Pure il leader leghista dovrebbe avere imparato qualcosa. Sinora ha avallato ogni nefandezza voluta dai suoi alleati in materia di giustizia, come il decreto ribattezzato «spazza-corrotti», in cui è prevista l' abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. La rinuncia alle grandi opere, motivata col pretesto che esse generano solo corruzione, fa parte dello stesso pacchetto giustizialista e pauperista. Salvini ha anche accettato di rimandare la flat tax alle calende greche e consentito a Di Maio di far piovere soldi sulle regioni del Sud e sui nullafacenti, spendendo soldi che presto dovranno essere coperti con nuove tasse. L' aumento della pressione fiscale a partire dal 2020 è già stato previsto dal governo nel Documento di economia e finanza e non ci sono dubbi che sarà soprattutto il Nord produttivo a pagarlo. In cambio di questo prezzo salatissimo, il ministro dell' Interno ha avuto mano libera nella gestione degli immigrati, che gli ha consentito di raddoppiare i consensi ottenuti alle elezioni politiche. Il 26 maggio, nei seggi delle elezioni europee, potrà passare all' incasso, e va da sé che sino ad allora non accadrà nulla. Il giorno dopo, però, a maggior ragione se i rapporti di forza saranno quelli che dicono oggi i sondaggi (Lega sopra al 32%, M5S dieci punti sotto), le cose dovranno cambiare. Salvini non lo deve a se stesso e neanche al povero Siri, tramite il quale Di Maio ha voluto ferirlo. Lo deve a quelli che lo votano, che non si meritano Alfonso Bonafede alla Giustizia e Danilo Toninelli ai Trasporti, e nemmeno uno come Conte presidente del Consiglio. In cambio dei servigi resi, l' obbediente esecutore degli ordini di Di Maio verrà candidato nelle liste dei Cinque Stelle alle prossime politiche e sarà senza dubbio eletto. Peone tra tanti, avrà finalmente un incarico all' altezza delle proprie capacità. di Fausto Carioti

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