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Sallusti: "Ecco perchè Renzi non arriverà a mangiare il panettone"

di Virzì Giulia domenica 30 agosto 2015

2' di lettura

Ci sono tanti fattori che remano contro il Presidente del consiglio Matteo Renzi. E iniziano a essere talmente tanti, che forse si sta apparecchiando la resa dei conti. L'ultima in ordine di tempo è la bufera sollevata dalla Cina nei mercati finanziari, che si lega a doppio filo con le riforme in materia economica che Renzi e il governo devono partorire in autunno, e che cade sotto il nome di legge di stabilità. Come spiega Alessandro Sallusti nel suo editoriale sul quotidiano il Giornale, quello che aspetta Renzi è un autunno rovente, durante il quale dovrà districarsi fra il sali e scendi dei mercati finanziari, crisi economica, questione immigrati e numeri risicati per l'approvazione delle riforme. Per non parlare poi delle spalle scoperte che si ritrova, con un partito che non lo appoggia più, o almeno non nella sua totalità, nel percorso di governo. È sempre più evidente come il premier non abbia più al suo seguito un partito compatto. Ammesso ovviamente che lo abbia mai avuto in passato. Infatti già dalle scorse settimane Matteo Renzi è a caccia di alleanze, di numeri e di voti che gli consentano di passare indenne le prove d'autunno. E le sta davvero cercando ovunque, fra forzisti titubanti e grillini insoddisfatti, per non parlare dei lupi solitari oscillanti fra le vecchie conoscenze e le nuove prospettive. Storia - Come si suol dire, la storia insegna. Ma fra il dire e il fare, ci sta sempre di mezzo il mare. Sallusti ricorda che nell'ormai lontano 1960 il primo ministro della Dc Fernando Tambroni fece quello che sta tentando di fare Renzi oggi, ovvero di ottenere la fiducia grazie a numero determinante di voti esterni al partito di appartenenza, e in particolare Tambroni accalappiò i voti dei missini, gli esponenti del Movimento sociale italiano. Si gridò allo scandalo per questa strategia, i democristiani di sinistra si ribellarono, i ministri si dimisero e Tambroni fu costrtto a mollare il colpo, abbandonando l'incarico di governo. La differenza fra quello che successe allora, e quello che potrebbe succedere oggi, è che nel 1960 saltò solo la poltrona del premier, mentre oggi potrebbe saltare l'interno partito del premier, vista la fragilità della compagine democratica. E la sorpresa sta nel fatto che forse per Renzi una sterzata del genere non sarebbe così male, perché lo metterebbe spalle al muro e di fronte alla possibilità (obbligata) di fondare il suo tanto agognato partito della nazione. Senza minoranze insubordinate pronte a mettere sempre il bastone fra le ruote.

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