L'elevato

Grillo ora fa il post in cinese pur di compiacere il Dragone

Giovanni Sallusti

Il compagno Beppe Grillo ha finalmente esaudito il suo desiderio principale: parlare in cinese, la lingua della sua patria d’elezione (ideologica, a trasferirsi fisicamente per godere delle magnifiche sorti e progressive del socialismo 5.0 non ci pensa neanche). Il miracolo linguistico è stato possibile grazie all’intelligenza artificiale, che ha trasposto in perfetto mandarino uno sproloquio che l’Elevato di Sant’Ilario ha pubblicato sul proprio blog, ormai un’appendice meno obiettiva del Global Times, il quotidiano ufficiale del Partito Comunista Cinese. Non stava nella pelle, il compagno Beppe che già durante la pandemia aveva incoronato il “modello” di Pechino (sostanzialmente lockdown, delazione e manganello) come «l’unico possibile». Tanto che già nell’incipit si fa prendere la mano: «La robotica, l’intelligenza artificiale, la velocità della tecnologia stanno cambiando ogni cosa intorno a noi. E la Cina è al centro di tutta questa rivoluzione. Non possiamo far finta di niente».

No, non possiamo far finta che il compagno Beppe non ometta un dato geopolitico macroscopico: ad oggi, gli Stati Uniti sono avanti sul dossier Intelligenza Artificiale. Come emerso anche da una ricerca pubblicata dal Washington Post, la maggior parte dei modelli di chatbot (i software simulatori della conversazione umana) sviluppati in Cina è indietro di almeno due anni, e la paranoia censoria con cui il regime affronta anche i nuovi linguaggi non aiuterà certo a colmare il gap. Mala realtà conta poco, per il compagno Beppe, che si affanna a negare un’ovvietà empirica, quella per cui la Cina è di gran lunga il maggior inquinatore globale, responsabile di un terzo delle emissioni di gas-serra. Macché, dal momento che «il 40% delle emissioni cinesi è imputabile a produzioni di beni esportati specialmente verso Europa e Stati Uniti» si tratta di «emissioni di fabbriche occidentali». Una supercazzola geo-industriale funambolica: inquina il Dragone, colpa dell’Occidente. Dopodiché, si passa direttamente a ripetere il Verbo del Politburo, per cui i cinesi «negli ultimi 70 anni hanno portato fuori dalla povertà 800 milioni di persone, favorendo tra l’altro la costituzione della più grande classe media al livello nazionale, con circa mezzo miliardo di persone. È pazzesco».

 

 


Sì, il fervore propagandistico dell’ex comico è davvero pazzesco. Spiace rammentare che mentre Pechino fissala soglia di povertà a 1,5 dollari al giorno, nei Paesi a reddito medio-alto la Banca Mondiale la prevede a 5,5 dollari. Con questa metrica assai più realistica, si constaterebbe che i poveri cinesi rimangono 371 milioni, ben il 26,5% della popolazione. Ma soprattutto, nemmeno la sinofilia più disinibita può seriamente presentare il Dragone come paradiso del ceto medio. Perché sì, c’è stata un’espansione considerevole della classe borghese, ma iper-concentrata nelle metropoli e sulle coste, e iper-dipendente dalla contiguità con l’apparato del Partito. C’è ancora un divario enorme tra città e campagna e non c’è ancora un margine di autonomia decente tra imprenditoria e burocratija. Né è verosimile compaia in futuro, diciamo almeno finché dovrebbe farlo sotto una dittatura comunista. Ma sono dettagli, non vorremmo disturbare il Grande Timoniere Xi e il suo addetto stampa in Italia, che persevera a raccontare l’Elodrado orientale: «Il Pil cinese è cresciuto del 6,3% tra aprile e giugno su base annua, anche se minore rispetto ad alcune previsioni ma ha comunque tenuto e sicuramente hanno capito e stanno anticipando i tempi».

Su cosa stiano facendo i gerarchi neo-maoisti è sicuramente più informato lui, noi annotiamo semplicemente che, come ha scritto anche Federico Rampini sul Corriere della Sera, le stime più diffuse indicano un’America proiettata verso una crescita su base annua doppia di quella cinese. Una cosa è certa: l’anno del mitologico “sorpasso” tra economie, annunciato tra trasversali squilli di tromba anti-americani fin dai primi Duemila, non sarà nemmeno il 2023. Ma non vorremmo turbare l’estasi dell’Elevato, intento a celebrare lo shopping del presidente cinese «nel Pireo che è diventato la nuova porta del mondo, nel petrolio in Venezuela, in valuta argentina, nelle ferrovie in Brasile, in Ecuador». Pura beneficienza scevra da qualunque disegno imperiale, ovviamente. Un afflato celebrativo che fa sicuramente più ridere della battuta finale: «Da buon genovese, auspico un accordo che veda La Via della Seta congiungersi con La Via del Basilico». Più che il garante del Movimento Cinque Stelle, ormai è il garante di Xi in Italia.