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Repubblica, l'ossessione per il Duce: processano anche i dipinti

Marco Cimmino
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Spunta il sole e canta il gallo/o Mussolini monta a cavallo. Così, Curzio Malaparte, nel 1928, ironizzava sulle attitudini ducesche da cavallerizzo. Perché il Regime, incredibile a dirsi, possedeva al suo interno, perlomeno nella voce dei suoi cantori più originali, una dinamite autoironica ed eversiva, che oggi difficilmente si potrebbe conciliare con l’idea di fascismo che passa, nelle scuole e nei mezzi di comunicazione.

Soprattutto, va detto, a causa dell’immagine cupa e un tantino necrofila che l’esperienza della Repubblica Sociale ha lasciato, nella percezione estetica del fascismo. E un pochino anche per l’approccio serioso, quando non imbalsamante, che certa sinistra mantiene, nei confronti della storia; e massime della storia del Novecento. Perché la sinistra ha, nei confronti della cultura in generale, e della storia in particolare, un atteggiamento decisamente controriformista: il secondo dopoguerra, per certi versi, ricorda gli anni del Concilio di Trento, con quella sua lugubre tendenza a mortificare la carne. Solo che, oggi, si mortificano più le idee. Fino a superare, talvolta, il confine del grottesco e del ridicolo. Perché, dalle parti di Repubblica, sono talmente convinti che esista una sola Weltanschauung, la loro, da scrivere cose abbastanza esilaranti, come se si trattasse delle dodici tavole.

 

LA POLEMICA

È il caso della polemica montata dal giornalone sul caso dell’affresco nella chiesa canadese di Notre Dame de la Défense, a Montréal. Si tratta di una bella chiesona eretta ad uso della comunità italiana in Québec, che venne affrescata nel 1934 da un artista evidentemente attiguo al regime allora in auge in Italia e che, secondo il costume di allora, ritrasse, in mezzo ai santi e ai prelati, il Duce in posa equestre, attorniato da alcuni riconoscibili gerarchi.

Cosa volete che vi dica? Allora, si usava così. D’altronde, ogni epoca ha le sue icone: oggi, magari, va di più Che Guevara, una volta il conte di Orgaz e, nel Ventennio, ahimè, Mussolini. Però, mentre a nessuno verrebbe in mente di felicitare El Greco o un murale di Banksy di apposito cartello, in cui ci si scusasse del soggetto trattato, incolpandone lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi, ai nostri mastri pensatori di Repubblica la cosa è venuta in mente e, sulla solita raccolta firme antifascistissima, debitamente rimbalzata dalla comunità italiana di Montréal, hanno ben pensato di montare un pieno, di quelli, appunto, che sono il loro marchio di fabbrica.

 

RISCRIVERE LA STORIA?

Vi risparmio il pippone antropologico, che non manca mai a corollario della tesi principale: ovvero che il Mussolini cavalluto rappresentasse, allora, un simbolo dell’orgoglio identitario di una comunità sovente disprezzata e assimilata a una cosca di delinquenti tout court. Sarà anche stato così, ma la ragione per cui, oggi, non si vuole apporre la pezza giustificativa all’affresco, per scusarsene o, peggio, cancellarlo del tutto, non mi pare sia quella: la comunità italo-canadese non è più una specie di cast del Padrino in salsa Commonwealth.


La verità è che di queste diatribe da quattro soldi, al di fuori dell’Italia, non importa niente a nessuno: c’è stato il fascismo? Ha prodotto, oltre a schifezze innumerevoli, qualche accettabile monumento, qualche sopportabile opera d’arte, chessò, Sironi, Piacentini? Che facciamo? Ce la teniamo o la buttiamo nella pattumiera? Buon senso vuole che, come ci siamo tenuti Simone Martini o Paolo Uccello, si parva licet, ci teniamo anche questa testimonianza del nostro passato.


Probabilmente, a qualcuno Bartolomeo Colleoni stava sulle scatole, ma a nessuno è mai venuto in mente di rifonderne la statua equestre, opera insigne del Verrocchio. Non è venuto in mente perché, semplicemente, non avrebbe avuto senso. È soltanto in questi tempi di calamitosa ignoranza che si sente la necessità di giustificare la storia: di dare sempre e comunque un voto, un giudizio, un commento, a ciò che la storia, con vece assidua, accumula nelle piazze, nelle strade, nelle chiese e nel gusto degli umani.
 

I NUOVI BRAGHETTONI Scrive l’estensore del ponderoso articolo: si può arrivare a difendere una dittatura pur di non perdere sé stessi (ortografia e punteggiatura sono sue, non mie). Io dico che si può arrivare a perdere se stessi, in ossequio a un’ossessione. Perché l’antifascismo, che, quando c’era il fascismo fu una nobilissima lotta contro la dittatura, peraltro combattuta da pochissimi coraggiosi, oggi sta assomigliando sempre più a una malattia mentale: a una manifestazione compulsiva. E vedo poca differenza tra chi chiede che l’affresco canadaese, che sta lì, senza far male a nessuno, da novant’anni, venga eraso o, perlomeno, depotenziato da un cartello espiatorio, e un Braghettone, incaricato di ricoprire i pudendi michelangioleschi. Il concetto è lo stesso: in un periodo vanno bene certe cose e in quello dopo no.
Se ci si attenesse alla teoria repubblichese, avremmo passato gli ultimi mille anni a correggere e imbraghettare quadri, affreschi, statue e così via. È l’idea di fondo che fa ridere: correggere la storia, perché qualcuno potrebbe farsi male. Il solito paternalismo illuminista di “tutto per il popolo, niente con il popolo”. Ma anche un atteggiamento aberrante, che faceva togliere o aggiungere gli uomini della Nomenklatura dalle fotografie del regime comunista, a seconda di grazie o disgrazie e che, oggi, fa stupire qualche anima bella, se in Canada guardano all’idea di correggere la chiesa di Montréal come ad un’autentica fesseria.

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