Il 25 Aprile dei negazionisti: così la sinistra riscrive la storia
Trasferire la Resistenza dal piano morale a quello militare, come elemento decisivo della Campagna d’Italia, non rende giustizia né alla verità né alla Storia. E con buona pace delle riletture apparse sulla Stampa.
Il fascismo non nasce razzista ma lo diventa sino alle estreme conseguenze, così come il comunismo non nasce dalla libertà ma è stato piuttosto liberticida. I due totalitarismi hanno in comune, tra i vari punti, la mistificazione della realtà e l’uso criminale della propaganda. Quanto all’ordine di insurrezione generale del 25 aprile (in codice chiamato “Aldo dice 26x1”), non sconfigge affatto i nazifascisti sul campo di battaglia perché sono già stati battuti dagli Alleati in campo aperto. E condannati senza appello dalla Storia.
La guerra di liberazione fu condotta sul piano strategico da due armate alleate, la 5ª statunitense e l’8ª britannica, e vide impegnate dodici nazioni, tredici con l’Italia. Il tributo di sangue fu di oltre 300.000 perdite tra morti, feriti, dispersi e prigionieri, come testimoniano eloquentemente i cimiteri di guerra su territorio italiano.
Il movimento partigiano incarnò la riscossa morale e la volontà di contribuire alla caduta del nazifascismo e alla fine dell’occupazione, ma furono gli stessi Alleati a mettere nero su bianco sulla documentazione pervenuta e disponibile agli storici, il peso trascurabile delle bande nelle operazioni.
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La questione verte su due grandi equivoci che ancora oggi intorbidano le acque della storia. Il primo è l’8 settembre 1943, solitamente considerato data dell’armistizio, quando invece si trattò di resa incondizionata e di suggello alla sconfitta militare; il secondo è legato alla vulgata resistenziale e a una narrazione sintetizzata ed estremizzata della guerra di liberazione, con venature di distorsione ideologica e partitica. La Resistenza nasce come reazione spontanea all’occupante tedesco, e poi viene incanalata dai rinati partiti del Comitato di liberazione nazionale. Conduce la guerra che può, ovvero la guerriglia alle spalle delle linee tedesche, quasi mai (almeno nella prima fase) in coordinamento con gli angloamericani, piccole azioni di sabotaggio e di disturbo, reazione a violenze e ruberie.
La prima cura degli inglesi era quella di disarmare immediatamente i civili nelle zone occupate, per un duplice ordine di motivi: non avere persone armate in giro, per evitare abusi e soprusi; disinnescare in origine la presa del comunismo, che Churchill avversava almeno quanto il nazismo.
Un’unica eccezione avvenne in Abruzzo, sulla Linea Gustav, alla fine di dicembre del 1943, quando gli inglesi accettarono la richiesta di collaborazione dei patrioti di quella che poi diventerà la Brigata Maiella, decorata di medaglia d’oro al valor militare. A Casoli, nel Chietino, il maggiore Lionel Wigram fornì un credito di fiducia ai volontari che volevano aiutarli a salvare i paesi minacciati di distruzione dai tedeschi e a liberare quelli sotto occupazione.
Liberato l’Abruzzo i volontari non si sciolsero e decisero di continuare a combattere per la libertà, transitando dal 5° Corpo d’armata inglese al 2° Corpo d’armata polacco del generale Anders. Tutto ciò fu possibile per la conclamata apartiticità dei maiellini, che pure avevano come fondatore e comandante nominale l’avvocato socialista e segretario di Giacomo Matteotti, Ettore Troilo, e come comandante sul campo l’ex tenente della Regia Aeronautica Domenico Troilo di fede comunista. La formazione infatti non faceva parte del Corpo Volontari della Libertà (Cvl), indossava uniforme inglese, portava il tesserino militare italiano e il tricolore sul bavero al posto delle stellette, perché i patrioti rifiutavano il giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele III, ritenuto responsabile del ventennio fascista, delle leggi razziali e del disastro della guerra.
La stessa Maiella, nelle Marche, condusse operazioni di disarmo delle bande partigiane alla fine delle battaglie di liberazione, come ordinato dai comandi inglesi. La Resistenza, dunque, non fu né monolite né protagonista assoluto di una guerra che fu vinta sul campo dagli Alleati, e non poteva essere altrimenti, persino insistendo sui bombardamenti aerei che nel periodo 1943-1945 fecero il doppio delle vittime rispetto al 1940-1943. Un dato che deve far riflettere.
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D’altronde era stato il bombardamento di Roma del 19 luglio a dare la spallata decisiva al regime di Mussolini, con la soluzione del Gran Consiglio che votandogli la sfiducia voleva liberarsi del Duce per far sopravvivere il sistema. Fu invece il colpo di Stato di Vittorio Emanuele con i circoli monarchici a far crollare tutto e ad avviare il governo militare di Badoglio, che era un esecutivo di scopo: far cessare le ostilità con gli Alleati. Nei 45 giorni si sviluppò un gioco degli specchi e degli inganni che interessò tutti, fino a partorire un armistizio che era una resa e un allontanamento da Roma che era una fuga. Le prime e profonde spaccature in Italia, arrivate ai nostri giorni, si originarono in quelle ore, con l’implosione dello Stato e del concetto stesso di Stato, che non poteva essere più quello di prima. La prima battaglia campale della Resistenza si svolse il 25 settembre a Bosco Martese, ancora in Abruzzo, coordinata da un capitano dei carabinieri, Ettore Bianco, e con molti elementi militari che poi andarono a costituire le bande. Così come oggi non ricordiamo mai il 25 aprile il contributo del I Raggruppamento motorizzato falcidiato a Montelungo, il Corpo italiano di liberazione e i Gruppi da combattimento che condussero la guerra regolare, tendiamo a dimenticare che nella formazione delle bande partigiane solo chi aveva dimestichezza con le armi, quindi i militari, poteva dare a esse un’organicità di combattimento.
Aspetto passato del tutto in secondo piano rispetto ai partigiani “politici”, emanazione dei partiti e riconoscibili dai fazzoletti di diversi colori, a loro volta inglobati nella narrazione della parte più numerosa, quella comunista. Dimenticato pure che Anpi rappresenta solo la parte più a sinistra del quadro del Cvl almeno dal 1947, quando uscirono praticamente tutte le altre anime partitiche che si riconobbero nella Federazione italiana associazioni partigiane e nella Federazione italiana volontari della libertà, proprio per evitare uno sbilanciamento verso le posizioni estreme che all’epoca erano quelle staliniste.
Va infine considerato che, in base ai dati delll’Archivio di Stato, i partigiani raddoppiarono dal 25 al 26 aprile 1945, quando la loro consistenza numerica toccò le 250.000 unità. In seguito le commissioni per il rilascio del cosiddetto Diploma Alexander, furono di manica larga, bastando poche deposizioni testimoniali per fregiarsi del titolo di patriota o di partigiano. Ricordo per ricordo, una visita a uno dei cimiteri di guerra italiani o Alleati, renderebbe giustizia alla memoria storica e alla celebrazione condivisa del 25 aprile, festa della libertà di tutti.