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Il rischio di cadere nel vortice dell'amore

Costanza Cavalli
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Siamo tutti Sangiuliano. In una tragica sequenza di obnubilamento, l’amore, o il fantasma che prendiamo per tale, umilia, inebetisce, fa scambiare l’euforia con la felicità e fa ridere gli dèi («Dadi di Eros sono le follie e i tumulti», scriveva Anacreonte). Vi vediamo voialtri, tutti a sghignazzare e a inviarvi meme (basta, per pietà), ma come ha fatto a essere così tonto, a me non sarebbe successo, ma perché ha scelto quella lì, la biondona tutta boccoli, con un sacco di denti e troppo trucco, bambola di porcellana come l’orrorifica Chucky, laureata all’Università telematica Pegaso. Pure classisti siete. Chi di voi, sempre con il ditino alzato a indicare il peccato altrui, a denunciare e a indignarvi, a volere la trasparenza altrui e la segretezza propria, chi di voi, non ha goduto di quella sintomatologia più o meno transitoria che è la passione? Siete tutti mefistofelicamente immuni alle pene dei sentimenti ed esclusi dal travaglio dei desideri? Pure ipocriti siete.

E di Romeo e Giulietta non ricordate? E di Paolo e Francesca? Tristano e Isotta? Lancillotto e Ginevra? Di tutte le storie d’amore che avete letto e studiato e, se ci avete capito qualcosa, dovreste pure aver pianto, ben prima che sul grande schermo arrivassero Lady Gaga e quel manzo di Bradley Cooper a sussurrare «in the sha - ha sha-la-la-la-llow»? E di quell’altra faina, succedeva appena l’anno scorso, sempre a fine agosto, quando il caldo morde meno, di quell’altra faina di Cristina Seymandi, dicevamo, non vi ricordate? Il video in cui il banchiere torinese Massimo Segre denunciava il presunto tradimento della fidanzata divenne virale. Pure di memoria corta siete. E insensibili, pensate che esista una matematica dell’umano? E moraleggianti. Non sapete poi quanto noi, uomini/donne non fa differenza, possiamo essere opportunisti e vendicativi? Rivedetevi «Come sposare un milionario», film del 1953 con Marilyn Monroe, Lauren Bacall e Betty Grable, e ridete. «Sapete chi vorrei sposare io?» – «Chi?» – «Rockefeller» – «Quale?» – «Uno a caso». I dialoghi sono tutti così. «E chi è?» – «Ancora non lo so. Ma non ha parlato di niente che costasse sotto il milione». E ancora: «Ma non credi sia un po’ vecchio?» – «Oh! Un uomo ricco non è mai troppo vecchio!».

Lì, al cinema, c’è il lieto fine. Nella vita, i più innocui tra noi vogliono solo possedere il corpo dell’altro senza poi chiedere favori, raccomandazioni, voti o voler vendere il Folletto. È che i luoghi comuni – lui che perde la testa per lei, lei che puntava solo a una scorciatoia – son come i proverbi, sono tutti veri, e ci mettono all’angolo: siamo certi di sfuggirvi, abbiamo bisogno di credere nella nostra unicità di individui (e proprio per questo l’amore ci fa ammattire, perché comporta una scelta e c’è qualcuno che riconosce la nostra singolarità), ma non è mai vero. Tutti facciamo le stesse cose. I luoghi comuni funzionano perché gli esseri umani sono esseri comuni che quei luoghi li occupano, sono catene. L’eccezione sono solo i matrimoni che durano, dove ci si vuole bene (si vuole, cioè, il bene dell’altro), dove non si deve dare, chiedere, restituire niente perché «preferisco essere infelice con te che felice con lui» (Radiguet aveva capito l’inarrivabile e aveva diciott’anni). Ma il soggetto trafitto da Cupido, dal momento appena successivo ai cieli blu dell’innamoramento fino alle carni sanguinose dell’addio, è disumanizzato. L’amore, lo diceva Walter Fontana, l’umorista, è un apostrofo rosa fra le parole «quant’è?». Se non l’avete provato, pure sfortunati siete.

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