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Scontri di piazza, il ricorso alla violenza è una firma politica con cui la sinistra non riesce a fare i conti

di Francesco Carella mercoledì 15 gennaio 2025

3' di lettura

A giudicare da ciò che accade sempre più frequentemente in diverse città italiane là dove gruppi di estrema sinistra trasformano le loro manifestazioni in vera e propria guerriglia urbana, la sensazione che se ne ricava è che nel nostro Paese il “passato non vuole passare”. I disordini con lanci di bombe carta contro le forze dell’ordine avvenuti a Roma e a Bologna (nel capoluogo emiliano vi è stato anche un attacco alla sinagoga) durante i cortei pro-Ramy sono solo gli ultimi episodi di una catena di violenze e soprusi che si allunga di giorno in giorno. La verità è che per la sinistra estrema il ricorso alla violenza è ancora un elemento imprescindibile della lotta politica, mentre l’ambiguità con cui il Partito democratico affronta tali episodi rimanda a un’altra stagione politica durante la quale la sottovalutazione dell’illegalità diffusa creò le premesse per la nascita del terrorismo.

Si affermò in quegli anni un’idea di legalità che nulla aveva a che fare con la vita democratica. Non vi era corteo che non finisse con atti di violenza, con vetrine rotte, auto incendiate e attacchi alle forze dell’ordine, ma per l’establishment politico-culturale di sinistra si trattava di “legittima manifestazione di disagio sociale e giovanile”. Del resto, anche quando nelle piazze spuntarono le P38 e si consumarono le prime azioni terroristiche la sinistra per non poco tempo si rifiutò di riconoscere la vera matrice di quegli atti parlando di “sedicenti Brigate Rosse” e quando non poté più evitare di ammettere ciò che ormai era evidente a tutti sposò la tesi che si trattava di “compagni che sbagliano”.

Ciò che alcuni storici hanno chiamato il «lungo sessantotto» non trova riscontro in nessun altro Paese occidentale. Neppure la Germania Federale, dove la Rote Armee Fraktion si rese responsabile di attentati feroci, conobbe un terrorismo politico attivo per oltre un decennio come è stato quello italiano. «Si tratta di una specifica anomalia nazionale», scrive Vittorio Vidotto in “La nuova società”, un saggio contenuto nella laterziana Storia d’Italia. «Tuttavia - prosegue - non è forse lecito sottrarsi alle suggestioni di un’impossibile ricostruzione controfattuale per provare ad immaginare quali minori costi sociali e quali diversi esiti politici avrebbe comportato una prudente e ferma repressione». In tal senso, avremmo potuto risparmiarci una lunga stagione segnata da gambizzazioni e omicidi.

Ma così non è stato. D’altronde, «né con lo Stato né con le Br» fu il leitmotiv di molti influenti intellettuali dell’epoca la cui formazione era riconducibile alla cultura politica comunista che non aveva mai del tutto “escluso il ricorso alla violenza come strumento di lotta politica”. Oggi occorre avere contezza che la mala pianta del ricorso alla violenza non è scomparsa in alcune aree della sinistra e che essa può contare ancora sulla comprensione da parte dell’élite politico-culturale cosiddetta progressista. Quel macabro segno della P38 che abbiamo visto ricomparire qualche settimana addietro all’Università di Roma non autorizza nessuna distrazione. Ricordava il teorico della “società aperta”, Karl Popper, che «la tolleranza deve terminare laddove inizia la minaccia dell’intolleranza». Si tratta della regola aurea dello Stato costituzionale moderno. Regole sconosciute a coloro i quali si nutrono ancora oggi di ciò che Rossana Rossanda in un articolo pubblicato il 28 marzo 1978 ( in pieno sequestro Moro) indica come «l’album di famiglia».

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